"Ho cercato di scandire il ritmo settimanale della mia vanitas, il senso segreto delle cose che si trasformano, senza che io riesca né a fermarne la modificazione, né a governarne il cambiamento... Ed è proprio in questo lento muoversi del soggetto rappresentato, che risiede il senso di un mio essere nelle mie vanità".
Così chiosava Carlo Pescatori il proprio ciclo della Settimana della Vanitas, nel 1990.
La vanitas nel Sei-Settecento era la natura morta chiamata ad un ufficio morale, svelando in un particolare (una mela bacata, un limone sbucciato, un teschio...) la fugacità della bellezza e l'inesorabile corruzione del tempo. L'apparenza delle cose era rivelata come un inganno, ma lo strumento del disvelamento, costruito come un doppio della realtà, era a sua volta un teatrino illusivo. Da qui la sopravvivenza del tema della vanità oltre ogni finalità moraleggiante: ora in una rivendicazione dell'autonomia della pittura, capace di carpire alla realtà il segreto dell'apparenza, dell'esistere delle cose nella luce (eleggendole dunque a emblemi della realtà), ora in una constatazione della distanza incolmabile da quella realtà.
Pescatori rendeva qui esplicita la sua poetica dell'oggetto-stato d'animo, eleggendo addirittura la Canestra di Caravaggio della Biblioteca Ambrosiana - vera insegna del genere nell'unità che la luce vera, chiara e diffusa conferisce alle cose fino a toccare, oltre l'apparenza, la sostanza della realtà gettata in faccia a tutti - a emblema della sua riflessione sulla realtà della pittura, che possa nascondere, nell'intima struttura con cui si fissa nella luce anche la cosa più umile, in una sorta di sospensione metafisica, un'impronta di chiarezza.
Pescatori in mezzo secolo di pittura s'è misurato con figure ambientate, paesaggi, temi civili, ma è stato soprattutto pittore di oggetti, rifiutando però di assumerli solo come prodotti, come documenti, come se fossero le prove testimoniali che si producono in un processo. Li ha invece collocati come indizi sul punto di trapasso tra un tempo che si sfalda e uno che si va coagulando, tra il venir meno - per guardare alla letteratura del Novecento - del correlativo oggettivo e l'imporsi del monologo interiore, come una meditazione concentrata, silente.
Carlo Pescatori, mentre le cose entravano nell'intimo dell'uomo occidentale, come merce, seriale, deperibile, sostituibile nella gran festa dei consumi, e si perdevano invece come deposito d'anima, più che raccoglierle come Penati di un'antica misura domestica e artigiana, ha incominciato a chiedersi se l'imballaggio delle cose d'ogni giorno - nell'esercizio antico della pittura - non fosse una cristallizzazione tragica, una nuova formula della vanitas della natura morta sei-settecentesca. Allora, non il naturalismo, ma il gioco incrociato di sguardi che fa la nostra coscienza della realtà. Perché quello che non sfugge nel gioco illusorio della visione è l'ordine intimo, il sentimento fondamentale dell'esistenza affidato a cose apparentemente sorde e senza vita.
Parliamo di cose, ma Pescatori le ha sempre più proiettate in un paesaggio, e il paesaggio in esse. Per intendere il procedimento, bisogna ripassare un certo cammino dell'arte moderna, fin dal primissimo '900, col cubismo che cercava un ordine analitico e costruttivo che inglobasse le mutevoli sembianze del reale, e finì col far essere le cose non nella loro singolarità, ma come paesaggio (nacque lì l'estetica della vetrina). Poi bisogna transitare dal senso del mistero delle cose quotidiane contemplato dal Realismo magico (un realismo non intimista, congelato in rigore di stile, in stupore lucido) all'intensità allucinata e inquietante di maschere e congegni grotteschi, di manichini tragici e alienati della Nuova Oggettività. E poi andare al Picasso postcubista, che nel 1935 annnotava: "Amare le cose e mangiarle vive", in un rapporto quasi animistico, rovesciando anche la tradizione della natura morta-vanitas, da memento mori a richiamo all'energia tenace della vita. Ecco la spiaggia su cui la risacca di tutte queste visioni e riflessioni ha lasciato alla fine la pittura di Carlo Pescatori, col suo associare sempre una sentenza morale alla visione del reale.
All'origine, la coscienza del reale è intesa da lui nello scandaglio di una condizione umana travagliata e turbata, in un gioco nevrotico, sarcastico, assurdo, amaro di teatrini visionari in cui inscenare conflitti esistenziali e sociali. Un gioco di violenta spazialità che fa emergere le ossessioni come crudi enigmi, e come problemi di stile per una consapevolezza anche etica, civile, in presa diretta con la condizione umana, in un tempo frastornato, frammentario.
Pescatori s'era formato negli Anni Cinquanta in cui andava placandosi lo scontro fra realisti sociali e astratto-concreti, perché si era ormai sfociati in una stagione altrimenti inquieta e allarmata. L'affermazione dell'informale, anche ai figurativi ed agli astratto-concreti, aveva posto la questione di un richiamo alla radicalità esistenziale quale terreno di testimonianza all'origine stessa del linguaggio.
Nella Lombardia di allora, verso il fondo del decennio dei '50, emersero i realisti esistenziali, come li chiamò il critico Marco Valsecchi (Guerreschi, Ferroni, Ceretti, Vaglieri, Bodini, Romagnoni), che scoprivano l'essenza della condizione umana nell'esilio. Nasceva un'arte tormentata a mettere in campo le zone inesplorate dentro il buio degli uomini e, fuori, i tormenti e i fallimenti. L'uomo sradicato presente nei relitti, la confessione d'uno scacco dopo le speranze di fondazione d'un uomo e d'una società più buoni sulle macerie della guerra.
Si affermavano le istanze di una nuova figurazione, ponendo la riflessione sulla forma come ultimo argine, anche etico, a un vuoto d'orientamento. Ora anche la forma della cosiddetta Nuova Figurazione teneva conto dell'arbitrarietà del reale, di comportamenti visti come fossero secrezioni naturali e decostruiti nel puro succedersi ed associarsi.
Carlo Pescatori, che veniva da una famiglia in cui si tramandava un'antica perizia artigianale, nel mestiere della pittura commissionata sui ponteggi degli affreschi e delle decorazioni (il padre Mario, e il fratello Angelo che avrebbe continuato su quella strada), incominciò proprio in questo clima, nella Milano in cui frequentava l'Accademia di Brera, a interrogarsi sulla zona dell'immagine. Come sarebbe emerso nei suoi primi cicli pittorici, dalle Periferie (1952-1958) all'Uomo e televisore 1958-1962.
Allora erano effetti lividi o l'emersione da un'alienazione di luce filmica. Un realismo in presa diretta con la condizione umana, che filtrava anche la tensione dolente ed emotiva della materia dell'informale, magari su un confine tra interno ed esterno che sarebbe poi stato sempre tipico di questo autore. Paesaggi urbani, spogli interni, figure isolate emergenti da fondi indistinti e di generica ispirazione da Bacon (l'essere l'uomo al mondo come un'escrescenza) o da Giacometti (la vita sulla soglia tra l'essere e il nulla), e in ambito italiano, accanto ai realisti esistenziali, da Francese, da Sughi.
Gli stessi luoghi d'ambientazione sono caratteristici d'una certa cultura dell'epoca: la periferia (né città né campagna, il luogo senza identità) e poi la tana-studio, il balcone e la cornice della finestra, della ringhiera, della balaustra, dello specchio, del quadro nel quadro, come figura dell'impossibilità di mettere le mani addosso al visibile. La balaustra segna la postazione, ma anche la prigione dello sguardo.
Poi Pescatori si apre alle istanze della società e della storia ma ancora, in spiagge di mare e greti di fiume, arbusti rinsecchiti, camicie sventolanti come stracci e bandiere bianche, emerge la confessione di uno scacco, pur in una lancinante lucidità visiva e concettuale. C'è un cambio di registro, nell'uomo e nella pittura, tra il primo Pescatori che cercava di imprigionare il reale in una struttura violenta, ispida e dolorosa, in un esercizio di scandaglio come riprova dell'esistenza, e questo secondo Pescatori che matura al giro degli Anni '70, che pare uscire anche dalle verifiche tra foto e pittura a cui poneva allora davanti perentoriamente il critico Luigi Carluccio in una celebre rassegna (Battaglia per un'immagine), cercando di raffreddare l'emozione, per raccogliere in una finitezza puntigliosa ma rarefatta le reliquie d'uno scontro fisico con la durezza delle cose. Anche l'enfatizzazione pop e iperrealistica degli oggetti viene ribaltata per raccontare la mercificazione dell'uomo, la sua standardizzazione nella scatola televisiva, destituito di storia e di futuro.
L'allucinato stupore, l'impronta icastica e assoluta d'un teatro di condizione umana disagiata, spinge Elvira Cassa Salvi a includere Pescatori tra gli artisti più rappresentativi della Coscienza del reale, titolo d'una mostra del 1974 in Palazzo della Loggia a Brescia. Una riflessione sulla capacità stessa della pittura di raccontare la condizione umana, che in quegli anni '70 induce Pescatori a ritrarsi di schiena, chiuso in un cortile, schiacciato a ridosso d'un muro, a mostrare, parafrasando la "vecchia", l'afasia di una Nuova Oggettività. Fino a dichiarare - nella serie intitolata Dietro dipinta tela - l'inattingibilità del mondo.
E' l'esito d'un decennio in cui l'artista ha scelto di farsi testimone più diretto dei drammi e delle contraddizioni politiche e sociali del tempo, in particolare della condizione urbana, reinventando con nuova consapevolezza aspra, amara, grottesca, temi che furono già del realismo sociale. Un gioco di esasperata spazialità - sarcastica -, in una sorta di montaggio tra l'artificio della visione e l'autenticità delle lacerazioni della coscienza.
Ma, da quella lucidità risentita avrebbe deciso, tra dentro e fuori, che uno spazio non può irrompere nell'altro, che si può annettere il tempo nell'opera solo nella traccia di un tempo che è stato, ma che non può più tornare. Le immagini avrebbero continuato a sedimentare la vita quotidiana sulla tradizione visiva, ma è come se l'artista si volgesse a riflettere sul proprio destino.
Nei primi anni '80 il grande ciclo delle età dell'uomo e degli affetti familiari - nascita, amore, morte - che l'autore finge commissionatogli da Sigmund Freud, ricapitola (1985) tutta una tradizione dall'umanesimo in qua, nella centralità prospettica della figura come nell'introspezione analitica. In filigrana, nel succo grigio e livido in cui sono dilavati corpi più che impietriti, metallizzati, si succedono riferimenti a Durer, Raffaello, Schiele, fino al Moretto del Cristo e l'Angelo della Pinacoteca Tosio Martinengo. Il ciclo nasce da un'occasione privata di immedicabile dolore nella perdita d'una figlia, ma diventa una contemplazione raggelata di dolorosa pietà, come ad allontanare il dramma in una oggettività spettrale.
Guardare diventa già un altro modo di giudicare entro le regole di montaggio: come prima spersonalizzava i luoghi umani, ora Pescatori decanta la psicologia, racconta un'altra assenza, del nutrimento umano nel succo della pittura. Che d'ora in poi sarà ribadita come incrocio di più sguardi, tra storia iconografica e inquietudini del presente. Nascono le Vanitas accampate a dirimere inesorabilmente spazi concavi e convessi, in un impianto che ribadisce un disagio latente, che nella sua trama (anche esplicita, nell'ostensione dei tappeti) delinea l'ordine perduto del mondo.
Pescatori riafferma che il pittore vive in simbiosi con le cose e che il senso più intimo della civiltà a cui appartiene è affidato a umili apparizioni tanto oggettive quanto illusorie, e l'artista non può che testimoniare questo: i movimenti e le passioni della luce, quanto più la realtà va strutturandosi nello sguardo.
La pittura diventa lungo tutti gli Anni Novanta un censimento dei piccoli oggetti domestici che popolano un'esistenza di pittore - tubetti, pennelli, frutta e verdura, arredi, giornali - ma che ci parlano del modo nostro di vivere con le cose. E' il controcanto di Pescatori a un'epoca in cui gli oggetti sono seriali, facilmente riproducibili e sostituibili, meno legati alla storia della nostra casa e della nostra esistenza: non hanno un'anima.
Nei cicli delle Vanitas o dell'Homo Bulla (dov'è esplicito, anche ironico, il riferimento a ornati di ville e palazzi bresciano-bergamaschi del Sei-Settecento in cui il gioco ottico del trompe-l'oeil si associava nella serialità e nella forte strutturazione dello sguardo all'esemplarità), la pittura di Pescatori, ben lungi dall'essere copia della natura, si rapporta ad essa come equazione di luce, con tutte le sue regole interne, ma per dirci che c'è una vita segreta delle cose, nella pittura, e quindi degli uomini dentro di essa, suscitata dalla percussione di luce.
Quell'ansia di verità e di purificazione che prima era nella denuncia del disordine, nella frammentazione di cose e spazio, si concentra ora nella luce che fascia poche cose nel silenzio e nella solitudine dove la tensione è parte essenziale, vigile, della visione, affinché diventi filigrana dell'anima. Pescatori parrebbe diventato un pittore in borghese, di conversazione - anche nei dipinti - pacata e ragionata. Ci va dicendo che bisogna amare le cose ordinarie, rinnovare il rito dei piccoli valori, degli affetti familiari: questo permette di dissolvere tutte le immagini già date, consuete.
Nell'ultimo decennio ritorna con grande frequenza anche il paesaggio nel trascorrere dal giorno alla notte, o da una stagione all'altra (in un identico appostamento sul lago d'Iseo, di fronte a Montisola; poi alle Torbiere) in una pittura che richiama l'età divisionista e secessionista: i luoghi, le cose si sgranano, più lo sguardo si fa d'appresso.
Non è possibile la redenzione delle cose finché non si è penetrati nell'interstizio dove la luce e l'ombra fanno parte intima delle cose stesse, le sostengono, le sfiancano e le rigenerano, così come la vita è un misterioso flutto palpitante.
Pescatori intitola questa serie all'Araba Fenice, l'uccello favoloso che muore in un braciere d'aromi e rinasce dalle proprie ceneri: l'arte che si ripete e rinnova incessantemente, nella sua stessa decoratività magica. Ma c'è anche un'altra meraviglia, nella lezione di vita e di mestiere trasmessa di padre in figlio. In una paginetta di asciutta commozione, Carlo ricordava pochi anni fa il padre Mario che contro ogni aspettativa riavviava la sua moto alla fine della guerra declamando la celebre arietta del Metastasio (come l'Araba fenice / che vi sia ciascun lo dice / dove sia nessun lo sa); e con quella moto, caricato il figlio, arrivava sul Sebino a dipingere, cercando "di entrare nel paesaggio superando il diaframma di tela dipinta"; e al figlio che chiedeva dove fosse l'Araba Fenice, sprizzava da un tubetto un flusso di vermiglione su un muro di calcestruzzo grigio. Il figlio ora guardava il lago, e scopriva che "i colori hanno perso ogni pettegola ambizione: solo un brivido di luce scivola sulle acque".
Pescatori non ha rinunciato a spremere l'ultima goccia del suo vermiglione, in un'inchiesta silenziosa e ostinata sul muro grigio della realtà, che si fa anche scrittura dell'oblio.
Il dipinto è un luogo di resistenza, che cerca di trattenere intatta, come un'ombra tiepida, una sensazione assoluta, un umore di luce tra corpo e assenza, tra chi ha sciolto le vele e chi è rimasto sul lido (si cita di nuovo Metastasio: "Se resto sul lido, se sciolgo le vele").
Sull'aria delle strofette cantabili del Metastasio, Pescatori ha così recuperato il valore del sentimento, della sensibilità, dello smarrimento di sé, ma dentro una chiarezza luminosa ed una sapienza musicale di nitida precisione. L'Arcadia della pittura? No, ma nel dipinto che cattura e trattiene un brivido di luce (titolo di più di un quadro) si compongono la realtà dolorosa degli affetti e il sogno di evasione.
Negli ultimi anni sono tornati in forze anche gli oggetti, nella pittura di Pescatori. Se mai, la rappresentazione si è fatta più strutturale, nel misurare, nelle cose, con ironica malinconia, l'oscillazione tra densità di presenza umana ed estraniazione nell'emblema.
Brescia, maggio 2006