Conclusi gli studi tecnici, la passione per la pittura, per tutta l'età scolare tenuta
a freno per finalizzare gli sforzi verso il "mestiere", prende il sopravvento
e nella prima metà degli anni cinquanta, mentre già è attivo come geometra,
Carlo Pescatori frequenta da irregolare esterno l'Accademia milanese,
presentandosi, di anno in anno, agli esami come "privatista": si diploma a Brera
nel 1953.
L''anno precedente, Giansisto Gasparini ha realizzato (in grafica e in pittura)
una celebre immagine, La nonna morta; nello stesso 1952, il pittore di
Vigevano viene premiato a Suzzara (1) con un'opera su un cantiere stradale,
Stradini. È un segno delle nuove tensioni espressive che stanno mutando,
quasi inavvertitamente, il clima del realismo postbellico. Anche se la rivista
Realismo comincia proprio in quegli anni la sua vicenda editoriale (2),
in realtà, il neo-realismo almeno in pittura è già tramontato. La riflessione
stilistica di Gasparini contribuisce in area milanese-lombarda al mutamento.
All'opera di Gasparini va collegata quella di Franco Francese, che sembra muoversi
verso il superamento della temperie espressiva propria del realismo; ancora
a Suzzara, Francese viene premiato due anni dopo, nel 1954, con una straordinaria
Contadina che mangia. Sia Gasparini che Francese portano in campo una
diversa interpretazione della realtà, spostando i termini sull'universo esistenziale
dei protagonisti: la contadina morta di Gasparini, nella dimensione delle sue
mani callose, nel corpo grosso e infagottato, si propone al lettore con un sentimento
d'affetto, individuale, personale: è anche la nonna. Non c'è solo il dramma
epocale di uno sradicamento in atto, attraverso lo spontaneo esodo dalla campagna
(e dal Sud) alla città (e al Nord), voluto, ma non guidato da un'industria in
espansione; c'è la persona, il singolo, l'individuo che vive interiormente il
dramma di una trasformazione epocale e, a questo connesso, quello della sofferenza
e della solitudine, vissuto dalla contadina che mangia controvoglia un po' di
cibo dalla scodella, un recupero colto dei mangiatori di fagioli di 70
anni prima: non più l'operaio "vincente", che sciopera e combatte nelle fila
della Resistenza. C'è la persona che affronta nell'individuale solitudine il
dramma dell'esistere; i tempi storici possono accrescerlo o alleviarlo, ma non
muta nella sua sostanza. Marx sta per essere soppiantato da Camus: e forse,
ai giovani che frequentano in quegli anni Brera, e Pescatori accosta, nel suo
essere pendolare e privatista, giunge una eco limitata, ma attenta, delle polemiche
che attraversano la sinistra francese in quel 1952, pressochè monopolizzato
"a sinistra" dal dibattito su L'homme rèvoltè che Gallimard ha edito
l'anno prima (in Italia giungerà tardi, ormai attenuato nel suo significato
dirompente, nel 1957).
L'avvio degli anni cinquanta ha ormai archiviato alcune polemiche, che hanno
travagliato la sinistra nell'immediato dopoguerra: all'iniziale unità, faticosamente
costruita attorno al progetto del Fronte nuovo delle Arti, in cui appare
facile, ai nostri occhi, cogliere una risonanza, una eco politica, all'unità
artistica "celebrata" nella I Biennale del dopoguerra (3), che ha messo a tacere
la polemica Vittorini-Togliatti sul rapporto politica-cultura (4), e ha messo
la sordina, occultandola, non elidendola, sulla fondamentale affermazione vittoriniana
dell'autonomia della cultura nei confronti della politica, è subentrata la nuova
polemica, interna al Fronte, nata dalle invettive togliattiane contro
la produzione artistica non iconica (5), una sorta di "scomunica" assai vicina
alla messa all'indice dell'arte degenerata di hitleriana memoria (6). Il nuovo
dissidio, nato sul finire del decennio quaranta, di fatto sgretola il Fronte;
la politica tenta di porre una seria ipoteca sulle forme stilistiche, arretrando
di mezzo secolo il discorso sull'arte e ghettizzando la scelta iconica nei confronti
delle più significative esperienze europee, che Milano sta portando in campo
con una vivacità e una vitalità eccezionali, figlie forse degli entusiasmi non
sopiti della Liberazione postbellica. Il realismo di fatto assume Zdanov forse
senza nemmeno conoscerlo (7).
Racchiudere una stagione essenziale per le sorti dell'arte europea e italiana
in pochi tratti diviene sempre distorcente: agli individuali "veli" si aggiungono
le giustificazioni ideologiche: tutta la stagione post-bellica - forse tutto
il secolo - è un periodo a forte caratterizzazione ideologica. L'artista vuole
"cambiare il mondo" (8), non si accontenta dell'opera; l'opera è il mezzo per
partecipare, per inserirsi nel mondo, per contribuire a modificarlo. In queste
riflessioni, si aggiunga l'approdo milanese della grande mostra di Picasso a
Palazzo Reale: anche Picasso vi partecipa. De Micheli, sull'Unità, titola
la sua recensione con un saluto e un viatico: Picasso è il più grande pittore
del mondo. Rispetto a Roma, dove la mostra è passata nell'autunno 1952,
l'antologica milanese della primavera 1953 propone anche Guernica, il
capolavoro del secolo, quella che Argan, ancora vent'anni dopo questi eventi,
definirà (9) la "Cappella Sistina del secolo XX". Picasso dimostra ai politici
la giustezza delle proprie osservazioni (l'arte deve prender parte alle vicende
politiche, civili, contribuendo a mostrare la verità al mondo), ma ai pittori
dimostra esattamente il contrario, che la verità della pittura travalica e supera
le contingenze e i dettami della politica; e documenta come l'arte, per quanto
assorta nelle sue interiori elaborazioni, sappia prendere parte alla vita, quando
sia spinta dagli eventi, elevando altissimo un grido terribile contro tutte
le sopraffazioni.
Anche Pescatori, troppo giovane per il "pellegrinaggio laico" a Parigi che tutta
la pittura italiana compie nel primo decennio del secondo dopoguerra, si reca
a Milano, legge l'antologica di Palazzo reale, sosta di fronte a Picasso, ne
assume la lezione, muta le sue iniziali propensioni.
Nella stagione iniziale del suo cammino artistico, Pescatori si è sentito attratto
dalle nuove ricerche astratte. Nei primi anni cinquanta, a Milano, non essere
astratti sembrava essere nell'Ottocento; e il giovane, come ogni giovane, soffre
l'inattualità. Non erano probabilmente note le lungimiranti osservazioni di
Morandi (10); di fatto, l'astrazione - di cui non restano prove, ma solo memorie
- viene utilizzata da Pescatori come un esercizio formale. Picasso, con la sua
prorompente irruzione, aiuta Pescatori a rientrare tra le fila dell'universo
iconografico. L'aiuto viene anche dalla tradizione della provincia, da una certa
pigrizia, dalla difficoltà a misurarsi con il nuovo: troppo nuovo, del resto,
appariva già l'adesione alle formule post-cubiste, che sembrano imperversare
nella ricerca innovativa della provincia bresciana. È il massimo consentito:
oltre c'è il vuoto, la denigrazione, il dileggio a volte, la dichiarazione d'impotenza.
Astratto è il pittore che non sa dipingere (11): l'Ottocento e l'Accademia sono
ancora ben saldi, rinforzati nella solida cultura tra le due guerre. Picasso
ha affermato che solo il reale si può rappresentare (12), offrendo uno stimolo
e un discorso invalicabile a tutti i paladini della figurazione, fors'anche
a quelli che non lo capiscono e sotterraneamente non lo amano.
Anche per Pescatori l'astrattismo viene superato in breve: rimangono per lui
un contatto con gli equilibri e le misure e un diverso modo di dare forma alle
pulsioni dell'animo. Meglio tuttavia ritornare all'iconografia, meglio ritornare
a Picasso. Meglio ancora, nella prima accentuazione pittorica che il giovane
artista viene sperimentando attorno alla metà degli anni cinquanta, cercare
il ritmo giusto attraverso un ennesimo azzeramento: con Fasser e Gallizioli
decide che la pittura si può esprimere solo attraverso il bianco e nero. Guernica
non è lontana, e soprattutto forte sente ormai l'imperativo di un ritorno rinnovato
verso la figurazione.
Anche il neorealismo è lontano; meglio Gasparini e Francese; meglio le suggestioni
di Wols che si vede con le sue immagini filamentose e amebiformi in alcune collettive
milanesi; meglio le nuove tensioni poetiche che i giovani braidensi vengono
portando in campo. È la stagione del "realismo esistenziale" dei giovani di
Brera; escono quasi tutti dall'aula di Carpi, da Vaglieri a Guerreschi, da Ceretti
a Romagnoni. A loro guarda questo ragazzo di provincia, con un occhio attento,
come lo è il provinciale che va in città, e con misure ritmiche alle spalle,
che sono parte della storia non scritta, quella dei primi apprendimenti sulle
impalcature su cui è salito con il padre Mario nelle chiese di provincia (13),
tra restauro e nuove decorazioni. Certamente, anche tanta cattiva pittura, ma
anche tanto equilibrio, tanta bravura, tanta qualità tattile, che occorre saper
cogliere. L'occhio non servirà a guardare oltre, a leggere il fuori,
ormai chiuso o quantomeno limitato all'esperienza personale; serve a scrutare
nell'animo, a leggere quell'emozione interiore che della pittura è contenuto
pressochè unico.
Il contatto, parziale e indiretto con la cultura neo-figurativa che a Milano
sta riemergendo grazie alla poetica esistenziale, favorisce la scelta che trova
altri stimoli grazie alla presenza in città di alcune gallerie, come la Alberti,
inizialmente, e successivamente quella dell'avvocato Gaudio. Esse portano in
città le nuove esperienze figurative. Non solo astrazione, non solo le nuove
tensioni informali, non solo quelle spaziali, che sfondano la tela per penetrare
la profondità dell'oltre; con la stagione esistenziale e neofigurative
rientra in gioco un'iconografia possibile. Se la breve stagione del Premio
Brescia sfuma rapidamente, è il mercato privato ad alimentare nuove aperture;
è appena sorta e sta ampliandosi, del resto, una nuova collezione, quella di
Cavellini, che trova la sua promozione nel 1957 con la pubblicazione di un prezioso
catalogo (14). La collezione Cavellini rappresenta la possibilità concreta di
accostarsi alle esperienze in atto: non solo Picasso; ma anche i suoi eredi,
e soprattutto le nuove esperienze astratte, che superano il rigore con l'impeto
del gesto. Nel gesto sta la chiave della nuova dimensione dell'arte.
Pescatori, legato alla cultura della "bottega paterna" -anche se in forme mediate-,
legato alla cultura iconografica, guarda piuttosto ai giovani esistenziali.
Per qualche tempo si è impegnato con opere -non più reperibili- eseguite esclusivamente
in bianco e nero (Guernica insegna). Prova, distrugge, riprova, in quel
decennio formativo, fino a giungere alle sue prime opere compiute all'inizio
degli anni sessanta, quando espone, con i due amici indicati, le prime tele,
caratterizzate da una tensione civile, che fa tutt'uno con quella poetica: Nuova
poetica esistenziale (con Giuseppe Gallizioli e Luigi Fasser (15)), è il
titolo della piccola rassegna a tre; e il titolo è indicativo della scelta di
poetica, che ne connota il cammino per lungo tempo.
Alla fine degli anni sessanta, raggiunta una cadenza espressionista, attraverso
una figurazione sintetica, spesso facendo leva su alcune intrusioni di colori
acidi che influiscono sulla percezione dell'immagine, Pescatori inizia quella
riflessione sull'uomo che diviene carattere del suo cammino. La sua pittura
sembra mediare tra due opposti stimoli: la spinta ideale lo porta all'espressività,
alla libertà espressionista, che è segno, gesto, rottura delle convenzioni narrative;
la tradizione accademica (e paterna) lo riconduce ad una pittura misurata, in
cui a volte si innalzano vette gridate.
Le prime opere che Pescatori allinea nel suo lungo cammino risalgono a questa
stagione: ha avvertito gli echi del nuovo, gli echi delle polemiche che a Brescia
hanno avuto una traduzione "in provincialese" attraverso la polemica scoppiata
tra innovazione e tradizione, tra sperimentali e tradizionalisti, negli anni
del "Premio Brescia", che muore forse per queste interne contraddizioni.
Gli anni cinquanta - per le poche prove residue rintracciate -, e l'inizio degli
anni sessanta, fino alla mostra collettiva, sono ancorabili a questo tentativo
che il giovane bresciano compie di aderire al movimento esistenziale milanese:
la pittura rimane sostanzialmente iconica, entrano nuove tematiche urbane, scarne
le cromie, che si accendono di tanto in tanto. Una pittura dilavata, che tende
a tradurre la nuova tematica che scaturisce dalle recenti, disumane, periferie,
dormitori che invadono Brescia con un livello edilizio di mediocre profilo.
La pittura è la amara dimensione individuale che traduce il sentimento di un
anonimato urbano che viene misurandosi con la solitudine, non quella della follia
individuale, ma quella dell'uomo di massa, rinserrato nei suoi spazi contenuti:
l'Uomo al balcone, 1961, vive in realtà la dimensione rinchiusa della
gabbia, incapace di essere "uno" nella folla ed ugualmente incapace di rapportarsi
all'interno degli affetti familiari (il dialogo impossibile, viene dall'immagine
di interno domestico di Uomo e bambina, 1960).
La comparsa della televisione, ad invadere lo spazio rappresentativo, non viene
salutata come un mezzo positivo, un'espansione delle nuove, possibili, conoscenze,
ma come un mezzo negativo, la dimensione inquieta e invasiva di un occhio che
si frappone tra gli uomini, divide la coralità domestica, povera che, spesso
ristretta, e ne frantuma il dialogo.
Tutti gli anni sessanta collocano Pescatori in questa cultura dell'impegno,
a volte sociologicamente ripercorrendo la nuova civiltà di massa che sta avanzando,
a volte recuperando in memoria gli echi di più lontane vicende: contro i trionfi
del "miracolo economico", l'artista contrappone la solitudine del contadino
inurbato, il suo straniamento nei confronti della vita.
Difficile condensare in poche righe una vasta e ricca produzione: tematicamente,
l'artista sembra oscillare tra l'espressione della solitudine del contadino
alla ricerca del nuovo cibo nella città (si veda un'opera come Il costo del
pane, premiata a Suzzara nel 1968), e l'evocazione di una inquietudine che
si rinnova: sono le immagini che rinviano alla guerra in Viet-Nam (Una rosa
per Huè, per esempio, trittico della metà del decennio) e riportano in campo
non dimenticate esperienze della personale infanzia giovinezza dell'artista.
La pittura d'impegno, diretta, viene meno con la fine del decennio, quello della
grande disillusione: ciò che si era avvertito all'inizio degli anni cinquanta
diviene amara quotidianità. Per questo, gli anni settanta sembrano scorrere,
pur nel mutare dei cicli pittorici, all'interno di una medesima condizione,
che chiaramente ripropone la dimensione esistenziale: tra individuo e storia,
Pescatori gioca le carte di una figurazione, in cui dominante diviene l'atelier
del pittore, il suo essere artista in una società che viene massificandosi.
Il pittore non si impegna più come cronista della realtà urbana; traduce l'impegno
nel suo essere pittore: l'opera vive su nuove iconografie, sul tubetto, sulla
vicenda delle cromie, spesso con uso simbolico dei colori, e dove tutto sembra
costruito ancora nell'ottica della dimensione civile: la pittura forse non serve
più, direttamente, a "cambiare il mondo"; solo non se ne può fare a meno; aiuta
a comprendere, i interpretare; l'arte nell'età delle ideologie e la cultura
incidono (cos%igrave; si spera) sulla realtà.
Il mondo rappresentato dal pittore bresciano, in cui prepotente riemerge il
recupero di una storia secolare (è l'omaggio alla "canestra caravaggesca"),
appare come plastificato, reso metallico, in una certa misura ostile: sulla
pittura e con la pittura, l'artista misura la sua distanza dal mondo. Dal punto
di vista iconografico, i suoi cavalletti, i suoi balconi, i suoi interni con
elementi meccanici (pistoni, bulloni, grandi oggetti metallici, a recuperare
quel mondo industriale che già ha attraversato la Neue Sachlichkeit),
appaiono definiti dall'assunzione di una figurazione che risente del clima pop,
più raffreddata, forse meno incline al compromesso consumistico, dal segno duro.
La pittura muta profondamente nei confronti delle stesure originarie, giovanili,
tutte tese a mediare tra tradizione e modernità, senza perdere il gusto della
pennellata, del tono. La pittura si propone attraverso stesure piatte, domina
l'uso dell'acrilico, che favorisce la perdita di spessore della stesura; sparisce
quasi la pennellata, assorbita nel continuum pittorico, che rinvia al
mondo industriale, al suo modello di pittura senza profondità. Anche l'immagine
subisce un processo di progressiva "industrializzazione": la rappresentazione
viene come "inacidità" dai colori, dall'assenza di prospettiva, dal gettare
tutto in primo piano. Pescatori volutamente esalta gli aspetti pittorici che
escludono ogni possibilità di effusione affettiva: si sottolinea la distanza.
In una trasformazione strutturale della pittura, in cui dominante è l'effetto
del colore acrilico, della sua piattezza senza sfumature, in realtà nell'opera
dell'artista bresciano avvertiamo in sottotono anche la presenza, la eco della
pittura-pittura che viene subentrando alle poetiche esistenziali, senza tuttavia
scalfirne la logica costruttiva: sedie vuote, spiagge deserte, a volte figure
raccolte in luoghi ristretti, solitarie. È il modello espressivo della figura
in interno, alternato al paesaggio rinserrato di una dimensione urbana
inospitale, che Pescatori utilizza per testimoniare il suo essere nel mondo
e la sua distanza, mentale e psicologica, dalle vicende. Anche la figura tende
ad affievolirsi come presenza sulla scena, quasi a sparire - e quando compare,
muta anche la pittura, che sembra tornare alle radici originarie.La pittura
non è via di fuga, ma luogo dell'esistere: la cultura delle ideologie non viene
meno, per formazione forse, o per convinzione, resta sullo sfondo.
L'acme di questo processo espressivo giunge alla metà degli anni ottanta, quando
il pittore elabora un ampio ciclo, dedicato non casualmente al dottor Freud,
attraverso cui ricostituisce simbolicamente le esperienze valoriali della vita
di ogni uomo, riflesse nella dimensione personale, dall'incontro, il
fidanzamento o quant' altro costituisca la scoperta dell' attrazione e dell'
affetto, alla famiglia, come luogo della pienezza, fino alla gioia
della vita che la famiglia esprime, non trascurando la conclusione inevitabile,
l'amara pagina conclusiva che non può che essere quella del dolore della
morte.
L'ultima immagine è una raffigurazione alta e amara, e costituisce lo snodo
essenziale del suo lungo itinerario artistico: per parlare di sè, Pescatori
utilizza la storia dell'arte, l'Angelo di Moretto che sostiene e copre
il corpo di Cristo illividito, il corpo grigio di una Deposizione crudele,
quasi nordica; l'artista sceglie quel viso, quel grido, quella sofferenza. La
sofferenza quotidiana non può essere "gridata"; per Pescatori, solo nella storia
il sentimento individuale può trovare espressione.
Pescatori ha elaborato un moderno polittico:cui affidare la dimensione dell'animo:
per la prima volta, il pittore che viene dalla tradizione e dall'accademia (diretta
o indiretta, la Brera serale o la frequentazione dei ponteggi paterni) si trova
a contatto con la materia instabile della psiche, con le contraddizioni, tra
affetto e ragione, nell'indagine sulle umane vicende. Il ciclo dedicato al Committente,
doctor F. apre al pittore la strada di una diversa storia pittorica, quella
che copre, grosso modo l'ultimo ventennio artistico; in questa diversità, rimangono
inalterati i caratteri espressionisti, che la sua mano ha accumulato in un quarto
di secolo, di abitudini e ritmi espressivi che non vengono meno.
Quel che si trasforma è la funzione dell'arte; Pescatori rimane stilisticamente
se stesso, ma poeticamente diviene altro. La pittura, da linguaggio di ricezione
del variegato e contraddittorio mondo, da "spugna" che tutto assorbe e ridona,
da "finestra" da cui si osserva il "fuori" e più ancora specchio che riflette
e si apre con umana partecipazione verso il mondo; diviene pertugio per rientrare
in se stessi, spazio per la riflessione interiore, realizza la congiunzione
tra io e tradizione, tra necessità di essere ancora pittore e la necessità di
dar voce, quasi esclusiva, alle proprie interne emozioni; da luogo della riflessione
civile, la pittura si fa luogo della riflessione psicologica.
Con il ciclo dedicato al "dottor Freud" sono mutati alcuni eventi espressivi;
Pescatori ritorna alla pittura dipinta; ritorna alla pennellata, a volte quasi
tattile, anche se l'artista non ama la densità materica del colore. Ritorna
il procedere antico di far vibrare il colore di superficie con i toni sottesi;
ritorna la sapienza del mestiere. In molti casi, l'artista sostituisce la tela
con la tavoletta. E ritorna anche la figura umana, che è prepotente protagonista
del moderno polittico del pittore bresciano.
Dalla metà degli anni ottanta in avanti la figura umana, senza diventare presenza
assoluta, ha un suo spazio nei nuovi cicli. Soprattutto emerge - a metà degli
anni novanta - il paesaggio, come luogo delle tensioni emotive: è l'unico
genere abbastanza assente, fino a questo momento, nella sua storia artistica.
Compare per accenni, come sfondo urbano a certe nature morte posate su una finestra;
compare come memoria. Diviene infine protagonista, attraverso un ciclo costruito
tra le Torbiere e il Lago d'Iseo, il lago lombardo, dalle dolci inflessioni
di grigio.
Mutano i temi, muta la pittura, come si accennava, che ritorna all'antico, al
delicato equilibrio dei toni, come se l'artista volesse affidare all'ultima
produzione la sapienza pittorica acquisita. Non tutto muta; restano le inquietudini,
le vanità, i ricordi, i moniti. Resta l'iconografia, come forza autopersuasiva.
Tutto un complesso mondo di simboli riemerge, recupera caparbiamente la voglia
di dipingere, pitturare se stesso e la sua storia. I termini che Pescatori utilizza
per esprimere la sua emozione, a volte la sua estraneità e la sua distanza dal
mondo, rientrano nel quadro della pittura dipinta: quasi che l'artista si riconoscesse
solo nello studio, dietro al quadro che immortala ed esibisce la forma, la modella,
la figura dipinta (è un recentissimo Autoritratto con modella, l'opera
cui facciamo riferimento). Mentre la pittura si avvia a dar conto della propria
estraneità nei confronti del mondo, rivangando memorie e misteri, Pescatori
ricerca., verità concrete.
Sono le esperienze conclusive di un percorso, ancora in progress, che
l'antologica di Lumezzane (la prima in assoluto nella sua lunga carriera) tende
a mettere in luce, attraverso un contenuto percorso negli spazi della Torre.
Tutto l'ultimo ventennio (o poco meno) di Pescatori si colloca all'insegna del
richiamo all'io pittore.
Gli anni ottanta costituiscono un ritorno alla pittura, dopo il concettuale,
il minimalismo, l'arte povera. Le esperienze ancorabili al recupero di Duchamp,
ai neo-dadaismi, alla tautologia della pittura che risolve se stessa nel proporsi,
hanno scarsamente inciso nel percorso pescatoriano: non potevano, del resto.
Altro mondo, altre ipotesi poetiche.
Il ritorno alla pittura, che emblematicamente possiamo collocare nell'Aperto
80 della Biennale veneziana in cui emerge la transavanguardia, investe l'artista.
L'isolamento nello studio può trovare una giustificazione quando la vicenda
dell'arte si è mossa in direzioni "altre"; non ha più ragion d'essere quando
tutta l'arte ritorna alla pittura. La distanza e/o il dissidio è ancora Bacon,
la sua de-strutturazione dell'immagine, modello invalicabile, vero spartiacque
ineludibile dell'arte di fine Novecento.
Pescatori misura e si ritira, osserva e tende a superare. La pittura ritrova
radici "altre" in lui, non vuole riconoscersi in un universo massmediale, dove
il mezzo si misura dal di dentro. Per il pittore bresciano la ripresa è complessivamente
una sostanziale mutazione di temi e di accenti, al fine di ritornare a riflettere
con le cose dipinte; ma ancora per conoscere, capire, capirsi; ancora per scrutare,
perdersi nell'equilibrio dei toni, trasalire per il tono giusto nel posto giusto.
Esercizi di stile, si direbbe. O esercizi di memoria, visto che i cicli dell'ultimo
ventennio riportano costantemente in campo le inquietudini esistenziali di un
uomo giunto oltre la soglia dei 50 anni.
Sono numerosi e differenti i cicli dell'ultima fase di pittura (compreso quello
conclusivo, stimolato forse dall'antologica che stiamo costruendo); essi sono
sostanzialmente riconducibili ad una medesima tematica, la stessa che l'artista
ha presentato nel corso degli anni.
A partire dal ciclo di Freud, Pescatori ha volutamente evitato ogni presentazione
critica; si è allontanato dall'introduzione "classica", forse perchè si è accorto
di entrare nel "privato", nel "personale". Non aveva più senso affidarsi all'amico
critico, ritornare a parlare di pittura, quando l'artista voleva esprimere sentimenti:
velati, nascosti, misteriosi, inquietanti. Una sorta di riflessione filosofica
sui temi della "natura morta". Per questo, probabilmente, Pescatori evita il
testo critico introduttivo, contiene l'introduzione in un breve racconto, spesso
riemerso dalla personale memoria d'infanzia; più spesso, a parere di chi scrive,
ri-costruito per dare un senso alla propria vocazione artistica. Occorrerebbe
rileggere in questi racconti le pagine in cui l'artista descrive i colori del
paesaggio o le luci degli ambienti, i luoghi emblematici della pittura. Oppure
leggere il rapporto del giovane con il padre, in questo straordinario atto d'amore
che non è solo filiale, ma è di pittura.
Sono racconti che ormai solo nella pagina scritta hanno per l'arista una ragion
d'essere: ma nella tavola dipinta serve altro. E al lettore sembrano lontani,
perchè traducono le emozioni iniziali, quella specie di educazione alla pittura
che è, nella memoria, infanzia.
I cicli hanno titoli che rinviano alla "natura morta" tradizionale: Pescatori
parla di Vanitas, di Homo bulla, di Araba fenice: parla
di cose fragili, instabili, mutevoli. Parla forse di noi, della progressiva
mancanza di spessore, in una società in rapido e progressivo declino: "Cardì,
sempar da po' / a n' ag siöm mia / e as, g'abituòm", scrive Zavattini (16) nel
1973.
L'ultimo ciclo, quello che chiude questa lunga carrellata, si intitola Gli inventari
della memoria: una sorta di sintesi dei motivi precedenti, che hanno osservato
l'uomo, le sue inquietudini e paure, la sua inconsistenza. L'uomo "bolla di
sapone" insegue verità impossibili; più spesso si lascia attrarre dai fantasmi,
dalle illusioni, dalle vuote chimere.
Non riesce, il nostro pittore, ad essere saggio e distaccato: insegue quel sottile
rovello che anima le sensazioni interiori; e lo fa con l'unica lingua che conosce,
quella della pittura. È consapevole, forse, che nella ricerca affannosa di tempi
inquieti come i nostri, difficile è scorgere l'approdo. L'artista continua a
navigare, a vista, non più ancorato alla meta sulla scorta dell'ideologia: uscirne
era necessario, denunciandone il vuoto. Anche se viene meno lo scopo ideale.
Rimane sovrana la voglia di dipingere, quasi la disperata necessità di tentare
una via di fuga, che solo l'arte può consentire, forse l'unica possibile: da
qui un lavoro continuo, un ritorno titanico quanto inutile all'età giovanile,
per ridar forma di conoscenza all'opera d'arte. Non un ritorno semplice e uguale;
la storia non è passata invano. Il tentativo di ridare, almeno nelle forme,
nei temi iconologici, nei processi espressivi, un senso al proprio fare, quando
la pittura voleva/doveva "cambiare il mondo".
Non c'è riuscita, Carlo: ma è stato bello tentarlo.
Brescia, maggio 2003
Note:
1) Giansisto Gasparini viene premiato per tre anni consecutivi a Suzzara, nel 1950 con una grande tela rappresentante
Donne in risaia, di stampo narrativo; nel 1951 con un carboncino dal medesimo
soggetto, più intenso, per il carattere immediato e fresco nella rappresentazione,
quasi di bozzetto, dell'immagine di risaia; infine nel 1952 con la grande tela
dedicata agli Stradini, una immagine in cui il paesaggio urbano, milanese,
appare come una foresta di cemento dai grandi occhi scuri, simbolo di una disumanità,
che lo stradino in primo piano vive individualmente nella fatica e nella personale
tristezza del suo lavoro.
2) Il periodico "Realismo" esce nella prima metà del decennio cinquanta; la direzione collettiva è formata
da Raffaele De Grada, Antonio Del Guercio, Mario De Micheli, Luigi Ferrante,
Adriano Seroni; è dedicato quasi esclusivamente alle arti figurative.
3) Nella XXIV Biennale d'arte internazionale
di Venezia, giugno 1948, alle sale XXXIX e XL, Giuseppe Marchiori presenta Il
Fronte nuovo delle Arti; il critico allinea le opere di Turcato, Santomaso,
Corpora, Pizzinato, Guttuso, Vedova, Viani, Birolli, Morlotti, Leoncillo, Franchina.
4) La polemica nasce sulle colonne del Politecnico, rivista culturale fondata dallo stesso Elio Vittorini.
5) E' notissimo il trafiletto di Rodrigo di Castiglia (Togliatti) su Rinascita, in cui definisce "mostruose" alcune
opere esposte nella mostra bolognese; e il giudizio verte proprio sulla "leggibilità" (iconografia-non iconografia) delle opere.
6) Con la mostra Entartete Kunst il regime hitleriano mette all'indice e indica alla pubblica derisione, le opere
delle avanguardie dadaiste e del Nuovo Realismo (Neue Sachlichkeit).
7) Nel 1949, le edizioni di Rinascita, danno alle stampe Politica e ideologia, una raccolta di scritti, interventi,
rapporti, di Andrej Zdanov.
8) L'idea di un'arte che serva a cambiare il mondo, ad incidere sulla realtà è un'idea diffusa nelle generazioni che escono
dal fascismo e dagli orrori della seconda guerra mondiale: "Di fronte ai miei lavori" si chiede Guerreschi in un catalogo di una mostra collettiva di grafiche alla Nuova Pesa di Roma, febbraio 1960, "mi chiedo tante cose, ma soprattutto se, e in che misura, essi contribuiscono a chiarire la realtà a modificarla".
9) La definizione di Argan si trova
nella sua straordinaria indagine sull'arte contemporanea: G. C. Argan, L'arte moderna 1770/1910, Firenze, Sansoni, 1970, p. 572: "Non è esagerato affermare che, nel nostro secolo ed in rapporto ad una problematica storico-politica, Guernica ha la stessa importanza che aveva avuto, in rapporto alla problematica storico-religiosa del Cinquecento, il Giudizio Universale della Sistina".
10) A Morandi si deve l'osservazione, data ad una allieva nei primi anni cinquanta e riportata oralmente a chi scrive, sul rapporto figurazione-astrazione: "C'è qualcosa, si chiede Morandi, di più astratto del reale?".
11) E' una dichiarazione assai diffusa; l'astrazione viene letta come la fuga dell'incapace, confondendo mezzi e fini
espressivi.
12) "Non esiste" afferma Picasso, "un'arte figurativa e un'arte non figurativa. Ogni cosa ci appare sotto forma di figura": è un pensiero tratto dalle riflessioni pubblicate da Christian Zervos sui Cahiers d'Art, n. 7, ottobre 1935. Già in precedenza, parlando degli errori dell'arte contemporanea, Picasso ha definito il più colossale errore dell'arte moderna nell'aver "voluto dipingere l'invisibile e ciò che sfugge all'arte" (testo uscito il 16 maggio 1926 sulla rivista sovietica Ogoniok, a Mosca, recante la firma di Picasso). I testi sono tratti da Pablo Picasso, Scritti, Milano, Se, 1998, rispettivamente alle pp. 29 e 19.
13) L'attività del padre, tra restauro e decorazione, andrebbe tutta riletta e, come per tutta la sua generazione, ri-valutata.
14) A. Cavellini, Arte astratta, con presentazione di G. Giani, Milano, 1959 (seconda edizione).
15) La mostra si tiene presso la galleria "Alberti" e ha la presentazione di un appassionato, "non addetto" ai lavori, segno di una scelta culturale, Angelo Rampinelli.
16) C. Zavattini, Invcend (Invecchiando), da Stricarm' in d'na parola, Milano All'insegna del Pesce d'oro, 1973, p. 131 (la traduzione letterale dei tre versi è: "Credete, sempre più non ci siamo / e ci si abitua".