- Il RITORNO -
Dopo due anni da sfollato torno a casa.
Trovo gli amici Giovanni, Beppe, Franchino, Stefano; corro nel cortiletto della nonna Ermelinda per rivedere, vicino alla gabbia dei conigli, ancora coperta da teli di sacco e lamiere ondulate, la motocicletta di mio padre. Un profumo di pane appena cotto arriva dal vicino forno: i libri di storia riportano altre date, ma per me la guerra è finita.
La AJS è ferma da tre anni; nessuno l'ha degnata d'attenzione, neppure i due soldati tedeschi, con interprete, venuti per requisirla l'hanno considerata; anzi, vedendola, si sono messi a confabulare e a ridere; mia madre stizzita, ma curiosa, chiede chiarimenti all'interprete: "I camerati dicono che gli Inglesi, produttori di questa ferraglia non potranno mai vincere la guerra; un "catorcio" del genere andrebbe rispedito a Londra con la "V2"."
Questa moto fabbricata in Inghilterra nel 1924, mio padre l'aveva acquistata di seconda o terza mano per 1600 lire nel 1936, ne era orgoglioso perché - lo ricordava a tutti - era il primo veicolo realizzato con la trazione a catena e non a cinghia.
Era lunga più di due metri, con serbatoio squadrato, marce a mano, dipinta di nero ormai opacizzato con scritte e filetti in oro freddo come si usava sulle casse da morto.
Era un animale meccanico tra il ronzino di Don Chisciotte e una gigantesca locusta, nobilitato da Picabia, assemblato da Duchamp, con qualche opzionale aggiunta Legèriana.
In famiglia lo amavamo, insieme ai libri, alla radio Magnadjne con giradischi incorporato, erano i nostri "status symbol" che ci facevano sentire nel nostro popolare quartiere periferico degli "ex grege".
- LA GUERRA E' FINITA -
In una luminosa giornata festiva di maggio, mio padre - lui al manubrio, io dietro a spingere - riporta la moto sulla strada.
Dall'osteria "del Cavallino" i paesani seduti ai tavolini, dietro una quinta di biciclette appoggiate al marciapiede, sbirciano la scena e aspettano l'evento: sorridono increduli.
Verso nel serbatoio un fiasco di benzina che un sorridente iperdentato negro liberatore mi ha dato, con delle tavolette di chewingum e con un barattolo di MEAL COMBAT INDIVIDUAL in cambio di una fotografia del duce a cavallo che l'impiegato della posta aveva gettato in strada e io raccolto.
Mio padre cicchetta sullo spillo del gicleur, maneggia sulla manetta dell'aria e su quella del gas, scalcia sulla messa in moto.
Il telaio si squassa; il motore emette un lacerante gemito, poi un rumore di scoppio di mortaretti: una nube di fumo nero e giallastro si espande bassa per la bianca via.
Le donne si affacciano alle finestre, i ragazzi lasciano i giochi e corrono a vedere, qualche imposta si chiude di botto, gli avventori "del Cavallino" si alzano dalle sedie impagliate e tossiscono: non credono alla possibile messa in moto.
Mio padre mi guarda, è felice, urla fra il fumo solforoso: "Questa è l'Araba Fenice!" e declama ilare l'aria del Metastasio
"È la fede degli amanti
come l'araba fenice,
che vi sia ciascun lo dice;
dove sia nessun lo sa."
- ARABA FENICE -
Spingo con fatica la memoria alla ricerca dell'Araba Fenice - dal finestrino del treno che mi portava in vacanza, avevo letto, scritta su un muro nei pressi di un passaggio a livello la scritta: Araba-Fenice-Ristorante.
Cos'è mai? Mio padre mi parla dei miti mediterranei, dell'Oriente, della morte e della resurrezione. Ora dov'è? Riposa in una cassa di violino vicino al cuore di un poeta.
Andiamo a fine estate in moto sul lago. È quasi sera. Seduti vicino all'acqua, mio padre dipinge: cerca di entrare nel paesaggio superando il diaframma di tela dipinta, io lancio sassi, poi osservo l'andare altalenante di un pezzo di legno marcio che galleggia e rotola sull'onda; quindi cerco di fermare il moto dell'acqua per meglio leggerne i colori. Un moscerino mi entra in un occhio che lacrima irritato.
Mio padre toglie dalla tasca il fazzoletto, ne affusola l'angolo; poi, spingendomi il mento, mi solleva la testa e mentre guardo il cielo lui, con un lieve tocco, mi libera dall'intruso.
Con l'occhio ancora lacrimoso chiedo all'improvviso:
"Dov'è l'Araba Fenice?".
Rovista nella cassetta dei colori e sceglie un rosso, si avvicina al muretto di calcestruzzo grigio e verde di cemento e licheni, e strizza dal tubetto un flusso di vermiglione. Improvvisamente il grigio si trasforma, diventa vita.
Guardo il lago; i suoi colori hanno perso ogni pettegola ambizione: solo un brivido di luce scivola sulle acque.
Gennaio 1997