(...) ma ciò che amavo e mi incuriosiva in quella grande cucina era la enorme nicchia a più ripiani.
Era il luogo dove la nonna teneva le cose più care:
- l'antica Bibbia con copertina in pelle sbiancata stampata a Venezia nel 1730 da Sebastian Caleti, dopo approvazione dell'Inquisitore e Riformatore dello Studio di Padova Tommaso Maria Gennari;
- i Vangeli illustrati con le quadricromie del Beato Angelico;
- il Libro delle preghiere con oleografiche immagini di Santi, tutti bellocci e con gli occhi al Cielo (perché non guardano in Terra anche agli uomini?);
- l'ampolla dell'aceto balsamico, non per condire, ma solo da annusare in caso di malore o di fiacchezza;
- la bottiglietta in vetro bianco contenente l'acqua benedetta, raccolta dal rubinetto di casa tutti i Sabati Santi al momento dello scioglimento delle campane;
- una tabacchiera in osso con coperchio madreperlato, contenente tabacco da fiuto marca Santa Giustina, ottimo contro il raffreddore, ma anche vizietto di mia nonna e di qualche sua amica, che, di tanto in tanto, se ne facevano una "presa", quando la tabacchiera si svuotava, io avevo l'incarico di acquistarne una bustina dal rivenditore: ne approfittavo per annusare di nascosto e starnutire divertito e stordito;
- un album di fotografie ingiallite con i ritratti dei cari defunti, che io, sciaguratamente, colorai con le aniline;
- la corona del Rosario con i grani di legno duro e scuro, che mia nonna, la sera dopo cena, sgranava recitando ad alta voce le cinquanta avemaria con intercalati i misteri dolorosi, seguiti dalle litanie (in questi momenti io mi eclissavo, accampando impegni di ripasso delle lezioni);
- una compostiera in ceramica bianca con filetti blu di Sèvres, dove si sistemava in bella mostra la frutta di stagione.
Il Pane
Verso la fine della guerra, la mia famiglia ha lasciato la casa nella periferia della città e si è rifugiata in un paese vicino, al sicuro dai quasi quotidiani mitragliamenti aerei.
Mi sentivo in esilio; i ragazzi del paese non giocavano con me e mi prendevano in giro perché parlavo un dialetto meno aspro; e poi, (comunque), per loro ero "diverso". Ero uno sfollato!
Mi recavo giornalmente alla scuola media del capoluogo e, mancando mezzi pubblici, (non c'era più benzina) utilizzavo una piccola bicicletta per percorrere i nove chilometri del percorso.
Partivo molto presto da casa, quando era ancora buio e, quando albeggiava, arrivavo all'abitazione di mia nonna, posta a metà strada, dove prendevo una tazza di latte. Nel frattempo la nonna apriva l'antica Bibbia e, ad alta voce, leggeva il Salmo XC:
lo leggeva in latino, perché, diceva era la lingua amata da Dio.
390 C O M M E N T A R I U M
1. Qui habitat in adjutorio Altiffimi, in protectione Dei coeli commorabitur. 2 Dicer Domino: Sufceptor meus es tu, & refugium, meum : Deus meus , fperabo in eum. 3 Quoniam ipfe liberavit me de laqueo venantium, & a verbo afpero. 4 Scapulis fuis obumbrabit tibi , & fub pennis ejus fperabis. 5 Scuto circumdabit te veritas ejus: non timebis a timore nocturno. 6 A fagitta volante in die, a negotio perambulante in tenebris: ab incurfu, & daemonio meridiano. 7 Cadent a latere tuo mille, & decem millia a dextris tuis: ad te autem non appropinquabit. 8 Veruntamen oculis tuis confiderabis , & retributionem peccatorum videbis. 9 Quoniam tu es , Domine , fpes mea: Altiffimum pofuifti refugium tuum. 10 Non accedet ad te malum , & flagellum non appropinquabit tabernaculo tuo. 11 Quoniam Angelis fuis mandavit de te: ut cufiodiant te in omnibus viis tuis. 12 In manibus portabunt te: ne forte offendas ad lapidem pedem tuum. 13 Super afpidem, & bafilifcum ambulabis: & conculcabis leonem, & draconem. 14 Quoniam in me fperabit, liberabo eum, protegam eum, quoniam cognovit nomen meum. 15 Clamabit ad me, & ego exaudiam eum, cum ipfo fum in tribulatione: eripiam eum, & glorificabo eum. 16 Longitudine dierum rcplebo eum , & oftendam illi falutare meum.
L'inverno del '44, è stato molto freddo; già in novembre era caduta inattesa tanta neve, poi, a dicembre, un'altra lunga ed intensa nevicata.
Tutto era bianco e le strade erano impercorribili; anche le colonne militari, che spesso transitavano sulla statale, erano ferme negli stalli e nelle caserme. Tutto era spettrale nella città: silenzio, freddo... Le rare persone che incontravo, solo adulti o vecchi, avevano il viso triste di chi soffre del presente e non ha speranza per il domani.
Alla scuola media, le lezioni duravano poco; peri continui allarmi aerei, ci rifugiavamo, correndo con affanno, ma quasi gioiosamente, nella galleria, scavata sotto la rocca del Castello. Il martedì, le lezioni continuavano anche nel pomeriggio nella fatiscente e glaciale ex chiesa, trasformata in palestra con l'applicazione di spalliera incastrata su intonaci antichi; la lezione finiva con il collettivo, svogliato e stonato canto di "Giovinezza".
Non mi reco subito a casa, ma anche se la luce se ne sta andando, non posso non fare una "scivolata" con gli amici sulla ghiacciata piazzetta antistante la chiesa-palestra.
All'improvviso mi trovo nel buio fondo.
Con la bici ora corro verso casa. Tutte le botteghe sono chiuse, non c'è nulla da vendere, ma nemmeno i soldi per comperare, le ante delle finestre delle case sono sbarrate: l'oscuramento è totale. Da qualche camino esce un poco di fumo (invidio quelli che nella casa ricevono calore); il fumo non è bello e profumato come quello della legna di rovere di gelso e di larice; ha strani odori. Il fumo di un camino puzza di asfalto; un altro odora di vernice e biacca, un altro di stoppie umide e cartone; si bruciano nei camini travi di legno, vecchi mobili e serramenti furtivamente recuperati tra le macerie delle case bombardate.
Supero le transenne del posto di blocco in piazza Arnaldo, un paio di persone adulte, sicuramente operai delle fabbriche belliche, mostrano, ansiosi, timorosi e incurvati i "pass" ai giovanissimi militi della G.N.R.. Più in là, quasi indifferenti, appoggiati al cofano di un autoblindo, tre militari tedeschi ascoltano dalla radio dell'automezzo, sintonizzato sulle onde cortissime da Berlino, musiche e notizie.
Arrivo ora a S. Francesco di Paola ed entro nel borgo abitato; anche se allungo il percorso, qui sono più protetto dalle case: dentro ci sono sicuramente delle persone, c'è vita.
Ora sono proprio solo, non ci sono più case che mi proteggono dal vento tagliente e dalla paura. Sono in una strana sospensione, canticchio ed accompagno il motivo strimpellando a tempo il campanello della bicicletta. E' un cattivo sogno o realtà? Cerco nel paesaggio conosciuto un riferimento, albero o casa o fabbrica, che mi confermi dello stato. Dove sarà mio padre? Fosse qui, alla sua ruota mi sentirei sicuro. Ora se con me ci fossero gli amici, tutto diventerebbe felicità; ci metteremmo a parlare, cantare, dire parolacce, e poi a lanciarci palle di neve fino ad esaurirci stremati. E, dopo, questa serata ce la potremmo raccontare e ricordare quando d'estate ci tufferemo nudi nei fossi melmosi della nostra campagna. Pedalo a centro strada nel solco di una carreggiata, e recito a memoria: qui habitat in auditorium altissimi...
Sento il rumore di un autocarro che sopraggiunge, si avvicina, mi fermo, scendo dalla bicicletta e mi sposto dalla sede stradale, affondo in un mucchio di neve gelida e scricchiolante; cado sul fianco. La "carretta" tedesca, che viaggia lentissima e a fari spenti, mi supera, poi, si ferma, sbandando. Sul cassone telato un soldato, con elmetto e mitra, mi guarda, sorride, solleva il telone e mi lancia qualcosa di grosso e tondo. Lo raccolgo: è una grande, enorme, pagnotta.
Arrivo da mia nonna, entro nel cucinone, corro alla nicchia e vi pongo il grande pane bianco. Nonna Ermelinda dice: Lo mangeremo insieme a Natale... poi piange, silenziosamente.
31 dicembre 1999