La vita moderna del paesaggio è altrove. Si dice che i pittori del '900 non amino camminare: quelli dell'800 invece non facevano altro che scarpinare. Ma vivevano nel paesaggio, mentre quelli di oggi vivono nella nostalgia del paesaggio. La scomparsa della natura dalla nostra vita quotidiana non la percepiamo solo come sconvolgimento del paesaggio tradizionale, quanto come esilio da un'originaria patria dell'uomo. E' venuta anche la fotografia, nel frattempo, a inaugurare quella che Savinio chiamò la notte bianca del mondo. Il paesaggio, anche quando si parte da un abbozzo sul vivo, è poi ripensato come immagine letta da altre immagini, come segno letto da altri segni.
Nell'800 c'erano ancora sguardi limpidi che si posavano su un mondo intatto, visto per la prima volta: i romantici si tuffarono nella maestà elementare della natura come in un bagno rigeneratore. Ci furono anche quelli che cercavano la natura attraverso l'antichità, vera sorgente purificatrice. Sul declinare del secolo, il simbolismo sollevò il velo della verità dietro la natura visibile. Fu sancita l'equivalenza tra pittura e mito.
La nostalgia contemporanea è il viaggio intorno a un'assenza, compiuto da chi è sradicato dall'armonia con l'universo. La tradizione del Moderno si è svolta sotto un segno antinaturalistico, sicché dopo l'800, che era stato proprio il
secolo del paesaggio, dei pittori che uscivano dagli studi per immergersi in esso, nel nostro secolo è apparso un luogo inattuale della pittura. Eppure, è stato la zona franca (la meno segnata dall'ideologia) del fare pittura.
Come nella mutazione fisica e antropologica vissuta dall'Italia - anche con grandi traumi e sconvolgimenti -, il paesaggio (che già fu fatto un Eden altamente idealizzato) rischia di avanzare dal fondo del tempo, nel filtro della memoria e della nostalgia, così nell'arte si offre, anche per residui, succhi e frammenti, come luogo di resistenza storica e umana.
Ma esiste anche da noi, tra gli artisti bresciani, un paesaggio più specificamente del '900? Se proviamo a uscire da ogni generismo e campanilismo provinciale, dove continuano a boccheggiare i cascami del paesaggismo ottocentesco, certo gusto ormai folclorico del bozzetto e del souvenir, e se proviamo a liberarci da una pittura di certificazione anagrafica, di nati per forza da questa terra, si può verificare un altro legame: la presenza fisica e spirituale di questa terra, come spazio trasfigurato nel quadro, in pittori che ne hanno fatto luogo di consapevolezza dell'immagine, di coscienza dello sfasamento tra il mondo del linguaggio pittorico, le cose e i dati dell'evidenza fisica.
Da qui la scelta di artisti che hanno manifestato un bisogno di terra come sostegno sotto i piedi, una ricerca di radici, ma che in quest'orizzonte bresciano - confine del vedere e del vissuto - hanno proiettato tutti i problemi del fare pittura. I due artisti che hanno accettato di esporre le loro opere insieme sono ormai di lungo corso: Carlo Pescatori e Giovanni Repossi sono entrambi figli d'artisti, il primo d'uno di quei decoratori cresciuti all'accademia dei ponteggi, uno degli ultimi frescanti; l'altro d'uno scultore di solido e pacato novecentismo. E' importante sottolineare questa filiazione, perché in entrambi ha significato il senso del devoto e affettuoso d'una tradizione. Ora sono prossimi entrambi ad un'intonazione dell'esperienza silenziosa, in intensa concentrazione meditativa, davanti all'immagine come pura e semplice rivelazione di luce e ombra.
Carlo Pescatori e Giovanni Repossi sono apparsi maturi entrambi alle soglie degli anni Sessanta, quando anche a Brescia gli artisti più avvertiti del disagio della civiltà si muovevano ormai fuori della dialettica degli schieramenti tra astratti e figurativi che aveva caratterizzato la stagione a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta.
L'arte italiana del dopoguerra, allo sbocco degli anni difficili, si era dibattuta in un'acutissima, drammatica presa di coscienza della crisi di un'intera civiltà. Comune, tra artisti che avevano scelto di fiancheggiare le ideologie e artisti che rivendicavano l'autonomia dell'opera, era stata la tensione morale, nel bisogno di adesione alla vita. Ora - dentro i Cinquanta -, quando si scopriva che sulle macerie della guerra non erano nati un uomo e un mondo migliori (si viveva sotto la cappa della Guerra Fredda e della paura atomica), non si credeva più all'immissione nella mischia, magari trasferendo le forme del conflitto sociale nella struttura stessa del quadro.
Sia Pescatori che Repossi furono influenzati da certo clima milanese detto del Realismo esistenziale e della Nuova Figurazione. Non negava l'esperienza informale allora dominante - il linguaggio vissuto come pagina di diario, l'immersione vitalistica, talora disperata, nei patimenti delle paste pittoriche e nei grovigli segnici -, ma introduceva una dialettica tra mondo esterno e tempo interiore, esplorando la dissoluzione e ricomposizione della forma pittorica come nuovo luogo di coscienza. Si era imposta l'esigenza di raccontare un processo di formazione delle immagini fatto di continui aggiustamenti tra esperienza diretta e vissuto interiore, nella percezione del procedere frammentario del reale.
Erano anche anni in cui andavano definitivamente in crisi gli statuti disciplinari dei tradizionali media dell'arte, per far posto a nuovi elementi concettuali o viceversa a una nuova evidenza degli oggetti (finche l'avvento della Pop Art impose di fare in conti con il dominio della merce, anche nelle nostre coscienze e non solo nel paesaggio urbanizzato contemporaneo).
Circolava alla soglia degli anni Sessanta il concetto di opera aperta, di arte come comunicazione in cui era fondamentale l'offerta del testo all'interpretazione del fruitore. Sia Pescatori che Repossi si imposero - nella struttura stessa dei dipinti -, alcune riflessioni sul mestiere del pittore, dell'uomo che guarda.
Carlo Pescatori muove dallo scandaglio di una condizione umana travagliata e nevrotica, in un gioco turbato, assurdo, sarcastico, amaro di teatrini visionari che inscenano conflitti esistenziali e sociali (le Periferie in un lucore livido).
Nei primi anni, sperimenta un gioco di violenta spazialità, che fa emergere le ossessioni come crudi enigmi, e insieme come problemi di stile, in nome d'una consapevolezza etica, civile, del fare pittura, in presa diretta con la condizione umana. Si percepisce un tempo frastornato, frammentario, in cui l'uomo sembra prossimo a un definitivo trasloco (lo sgombero dell'umano dalla scena del mondo) o invece la resistenza di alcune cose impregnate d'una viziata consuetudine (si guarda Verso il paesaggio, che sembra leopardianamente indifferente allo scacco dell'uomo).
Pescatori si avvia Lentamente verso il mare (serie dei primi anni Settanta) fino poi a dichiarare l'inattingibilità del mondo Dietro dipinta tela (è la serie dei secondi anni Settanta), perchè solo più tardi scoprirà che il suo compito è quello di attestarsi sul confine tra la luce e il buio, e da lì tessere una trama fittissima di misurazione della sostanza, del peso, della porosità stessa dei luoghi.
In quegli anni Settanta era il montaggio tra l'artificialità della visione e l'autenticità delle lacerazioni, ed era l'inchiodare le figure assenti in uno spazio violento e inquieto. Allora erano effetti lividi o l'emersione da un bagno di luce bianca, filmica, irreale. Lo spazio stesso fatto inerte, decostruito nel puro succedere di luce. Le cose rotolavano come sassi, frammenti verso la risacca. La linea d'orizzonte era una linea netta, di cesura definitiva.
La pittura di Pescatori si fa tra gli anni Settanta e Ottanta minuta, precisa nell'addensare e diradare il tessuto coloristico, in una definizione ottica quasi lenticolare (si apre una Finestra sul paesaggio, una ringhiera segna la postazione, e anche la prigione dello sguardo), ma insieme è come filtrata, si direbbe sgranata dall'emozione (non per niente, la sabbia raccoglie la vanità illusiva del tutto), come una virtù scontrosa di chi ha appreso che guardare è già un modo di giudicare, senza sconfessare una precedente volontà di denuncia.
C'è un'ansia di verità e purificazione - tutta esistenziale - che prima era nella denuncia del disordine, nella frammentazione di cose e spazio, ora si viene concentrando nella tela del ragno che irretisce un luogo, un paesaggio, nel silenzio e nella solitudine, dove la tensione è parte essenziale, vigile, invischiante della visione.
Pescatori è diventato oggi un pittore in borghese, di conversazione - anche nei dipinti - pacata e ragionata. Sa che tutti i quadri devono più ad altri quadri che all'osservazione del vero, ma sa anche che è dentro quella tradizione che si spiano i barlumi che dà la vita. Il mondo visibile è un mondo formale, sicchè appigliandosi alle occasioni minime, senza enfasi si possono fare domande elementari, assolute, davanti all'inarrestabile fluttuazione del mondo e delle cose. Pescatori, nei suoi lavori, ci va dicendo che bisogna amare le cose ordinarie, rinnovare il rito dei piccoli valori, degli affetti familiari: questo permette di dissolvere tutte le immagini già date, consuete.
Il quadro è costruzione d'un oggetto, ed è la perizia della lingua pittorica che aiuta a fare della pittura una decifrazione del vuoto, degli intervalli della vita, in una mistione di cose visibili entro uno spazio d'attesa, di tensione che, per intenderci, potremmo chiamare metafisica (un po' pomposamente, per questo pittore che abbiamo detto che non veste abiti curiali).
Anche nei paesaggi, varcata la soglia degli anni Ottanta, troviamo il riferimento alla natura morta, fin dall'incunabolo del genere, nell'estremo '500: la Canestra di frutta del Caravaggio, che offriva un brano di realtà corposa mentre faceva opera illusiva e moralizzata. La luce, vera, chiara e diffusa conferiva unità alle cose e fondava l'autonomia della pittura. L'impronta feriale, l'affettuosa osservazione delle cose affondava nella pittura della realtà lombarda, il santuario dell'arte semplice.
Sembra superata certa autonomia minacciosa degli oggetti, in luoghi impediti, di vita spaesata, per un'intimità visionaria che contempla luoghi e nature morte come forme inerti che racchiudono forme viventi, passioni dell'animo e moti della luce. "Ho cercato - dice Pescatori stesso - di scandire il ritmo della mia 'vanitas', il senso segreto delle cose che si trasformano, senza che io riesca ne a fermarne la modificazione, ne a governarne il cambiamento... Ed è proprio in questo lento muoversi del soggetto rappresentato, che risiede il senso di un mio essere nelle mie 'vanità'".
All'osservazione analitica, concettuale, è sempre associata una sentenza morale. E il laico Pescatori, chiuso nel suo studio, si dibatte in problemi che sono, per dirla solennemente, di teologia della pittura: nientemeno che capire la natura creatrice della luce, nella tensione alla rivelazione del reale.
Non per niente mette a stelle del suo firmamento Caravaggio, il pittore della luce brutale e trasfigurante di Grazia, e Velàzquez,
il pittore della più esatta idea del vero stesso. E, per non sottrarsi alla tradizione locale, della pittura della realtà, Moretto nella strutturazione di autentica quotidianità alla pietà. E poi altre stelle, da Van Eyck a Holbein a tutti gli scienziati delle variazioni prospettiche e delle evidenze lenticolari, a Sanchez Cotan santo pittore di spogli bodegones di trascendenza mistica.
Le strutture della visione dell'uomo e delle cose, alle fondazioni dell'età moderna, ripensate alla fine dell'età moderna. Ma in una verifica del mestiere, del fare quotidiano, che è insieme umilissima e superba.
Umilissima: la pittura come esercizio tecnico di orditura della luce - materia che sta dentro il quadro -, come in un'esecuzione di temi musicali. Superba: la pittura come custodia del valore metafisico e simbolico che la più piccola cosa può avere per la nostra vita, o almeno ha avuto nella storia millenaria delle cose, fino all'avvento della civiltà degli immateriali.
Pescatori sa che la categoria della luce, che fonda l'autonomia della pittura di natura morta e di paesaggio, non era neppure contemplata nell'ordine classico delle arti. Ora, la luce è compagna e custode del pittore moderno. Non a caso, attraverso la serie, i paesaggi (nel trascorrere dal giorno alla notte, o da una stagione all'altra, in un identico appostamento sul lago d'Iseo, di fronte a Montisola) richiamano l'età divisionista e secessionista: i luoghi, le cose si sgranano, più lo sguardo si fa d'appresso, finche l'occhio si spinge attraverso di esse, molecole sempre più inafferrabili, verso una zona inesplorata.
Non è possibile la redenzione delle cose finché non si è penetrati nell'interstizio dove la luce e l'ombra fanno parte intima delle cose stesse, le sostengono, le sfiancano e le rigenerano, così come la vita è un misterioso flutto palpitante.
La pittura è questo: voler seguire lentamente, custodire nello sguardo, qualcosa che esige velocità, che fugge
e trapassa.
Pescatori intitola questa serie all'Araba Fenice, l'uccello favoloso che muore in un braciere d'aromi e rinasce dalle proprie ceneri: l'arte che si ripete e rinnova incessantemente, nella sua stessa decoratività magica, fiabesca. Ma c'è anche un'altra magnificenza fiabesca, nella lezione di vita e di mestiere trasmessa di padre in figlio.
In una paginetta di asciutta commozione, Carlo ricordava pochi anni fa il padre Mario che contro ogni aspettativa riavviava la sua moto alla fine della guerra declamando la celebre arietta del Metastasio; e con quella moto arrivava sul Sebino a dipingere, cercando "di entrare nel paesaggio superando il diaframma di tela dipinta"; e al figlio che chiedeva dove fosse l'Araba Fenice, sprizzava da un tubetto un flusso di vermiglione su un muro di calcestruzzo grigio. Il figlio ora guardava il lago, e scopriva che "i colori hanno perso ogni pettegola ambizione: solo un brivido di luce scivola sulle acque".
Un brivido di luce, un'arietta di Metastasio: il valore del sentimento, della sensibilità, dello smarrimento di sé, ma dentro una chiarezza luminosa (il lume della ragione) ed una sapienza musicale di nitida precisione. L'Arcadia della pittura? No, ma la favola teatrale in cui si compongono la realtà dolorosa degli affetti e il sogno di evasione. Il brivido di luce (titolo di più d'un quadro, ma altrettanto gli sono compagni i Colori pettegoli o la Luce fredda) è dunque un brivido di malinconia e di libertà, che pare incrementare quella luce della natura, come se potesse penetrare oltre il velo che sta dietro le cose visibili.
L'Araba Fenice, il vermiglione: con una delicatezza nuova, un'espressione lirica del sentimento sull'aria di strofette cantabili alla Metastasio, capaci di racchiudere tesori di esperienza dell'anima, i paesaggi di Pescatori della seconda metà degli anni Novanta ci
rivelano lo stupore innocente, rivelatore, che è solo dell'infanzia, di fronte alla trasognata evanescenza del mondo, quindi della pittura.
L'arte non è un calco. Il dipinto è un luogo di resistenza, che cerca di trattenere intatta, come un'ombra tiepida, una sensazione assoluta, un umore di luce tra corpo e assenza, tra chi ha sciolto le vele e chi è rimasto sul lido (vale la pena di citare ancora Metastasio: "Se resto sul lido, se sciolgo le vele").
Allora, non il naturalismo, ma il gioco incrociato di sguardi che fa la nostra coscienza della realtà. E questo spiega la coerenza di Pescatori, dai temi sociali ed esistenziali della "nuova figurazione", negli anni Cinquanta dei suoi esordi, all'attuale timbro apparentemente domestico e feriale, nell'occasionalità corposa di attrezzi di bottega o di oggetti di natura in posa, o di scorci paesaggistici frantumati nell'arabesco della luce, assunti nella stessa doppia illusione della vanitas: la massima evidenza e la massima estraniazione nell'emblema. La buccia più densa e la più sottile trasparenza di immagini che si dichiarano come tali. Ma dense di presenza umana. La visione pignola, meticolosa, si fa introversa, una sfocatura che rimanda il senso dell'attimo perduto, assorbendo luce ed energia dall'esterno (dal Notturno domestico all'interrogazione di Dove approda la luce verde).
Alla ricerca di una terra felice si intitolò negli anni scorsi un'antologica di Giovanni Repossi, il pittore clarense per decenni docente di decorazione all'Accademia di Brera, che si è mosso tra grandi lavori di decorazione parietale, riallacciandosi alla tradizione della pittura civile e gnomica negli spazi pubblici, e sperimentazioni a cavalletto, dove è venuto emergendo soprattutto dagli anni Ottanta l'uso dell'acquerello come una coltura liquida della memoria.
Oggi l'arte di Repossi si propone come lotta tra l'accademia (la coltivata coscienza del mestiere) ed una scrittura più emozionata, quasi folgorata dal sogno della pittura.
Figlio dello scultore Pietro, sprovincializzato dalla frequentazione di Matteo Pedrali a Palazzolo, allievo a Brera di Morelli, Carrà e soprattutto Funi, che lo volle suo assistente in più lavori ed al quale subentrò nella cattedra, Repossi nella
Milano inquieta della Nuova figurazione (il racconto d'una condizione umana di disagio, d'angoscia ed alienazione) scopriva anche il cinema della scuola dello sguardo (Robbe Grillet, Resnais, Antonioni...} e la fotografia soggettiva in una ricerca che indagava oggetti e persone nel paesaggio in una non rassegnata impossibilità di instaurare un rapporto diretto con la realtà, così come la frammentazione di immagini stereotipe e l'accumulo di strutture della Pop inglese l'hanno avviato alla scoperta di un'immagine umana estremamente episodica ed effimera, soggetta nella memoria alle stesse metamorfosi incessanti della natura.
La foto diventa importante nel lavoro di Repossi perché produce uno scarto rispetto alla realtà, ma sembra poi rimandare ad essa con più violenza, se è un frammento di memoria, o un istante di vita congelato per sempre.
Tutto il lavoro dell'artista clarense viene concentrandosi sulla traccia lasciata dall'esistenza umana, incorporando anche gli stati emotivi.
Negli anni Sessanta e Settanta, attraverso i Paesaggi combusti (i luoghi ridotti a un Mappale, a un condensato di energia visiva) e poi i Giardini della memoria, c'è una salda capacità di inventare uno spazio che si fa sintesi dell'esistenza, prima in una ritmica prossima ad essere sfusa nel bagliore di luce, nell'intermittenza del cuore, poi in un recupero dello spazio figurativo alle origini dell'arte contemporanea, tra la fissità vibrante del puntinismo e la simultaneità dinamica del futurismo, a raccontare l'istante ed il fluttuare della realtà nello spazio e nel tempo.
I Giardini della memoria sono evocazione di figure e di sentimenti (l'infanzia, gli affetti, le illusioni cadute} sotto l'azione del tempo, e la collocazione entro spazi canonici della storia della pittura (per di più di avanguardie convinte del progresso scientifico del loro modo di vedere} è come la proiezione su uno schermo, in zoomate e slittanti tentativi di messa a fuoco, della materia magmatica, sfuggente, baluginante della memoria.
Si afferma la necessità di una ricostruzione mentale di immagini passate per il filtro della cultura, perché lo scorrere del tempo si scandisce nella sovrapposizione di più piani figurali.
Repossi, verso la fine degli anni Settanta, recupera anche il ritmo delle scritture, a suggerire un racconto potenziale, la forma d'un paesaggio dell'anima: sono i Diari della memoria, chine e pastelli su vecchi documenti burocratici, quasi certificati d'esistenze ormai inafferrabili, in un flusso di scrittura corsiva. Inizia la sperimentazione dell'acquerello che lo accompagnerà per tutti gli anni Ottanta, e oltre, con rivisitazioni di tutta la storia di questa tecnica, ma con un immediato rovesciamento: l'acquerello non è l'appunto pittoresco, il bagno d'atmosfera di degustazione intimista e di incrinatura sentimentale. E' invece lo sprofondamento lucido nell'enigma dell'esistenza, nella fluidità di un mondo perpetuamente transitorio. La carta diventa il luogo d'un eremitaggio spirituale, ove si evoca l'insieme col frammento, la presenza con l'ombra, tentando la metamorfosi tra tempo dell'immagine
e tempo dell'esistenza.
Quest'avventura liquida è la ricerca d'una terra felice, perché, l'artista vuol tornare ad abitare poeticamente i luoghi, ad enucleare la vita nella pittura. E lo fa recuperando il Mito, dal ciclo Nell'isola di Boecklin al Viaggio nel mito, prima e seconda metà degli anni Ottanta. È la consapevolezza che l'esistenza individuale rifluisce in una moltitudine di forze vitali, a costituire lo spirito di un luogo, che spinge Repossi verso la sua isola: un luogo che non esiste se non nella polla acquosa della memoria, e non a caso l'artista l'affida alla sostanza senza corpo, illusoria, ora espansa ora ristagnante, dell'acquerello.
Ma un luogo edenico abitato dagli dei, una Terra promessa per chi vive immerso in una frastornata precarietà. Terra degli dei, ma anche terra dei morti, perché il celeberrimo quadro dell'Isola dei Morti che sta in filigrana fu dipinto dall'artista svizzero Boecklin in cinque versioni, dal 1880 al 1886, come approdo notturno, nel chiarore lunare denso di presagio, di una barca col suo carico mortuario ad un cimitero insulare, dove rocce e cipressi precipitano in una laguna di tenebra.
Al viaggio dell'anima, alle voci di dentro, l'artista di oggi offre come guida la forma classica, rivissuta come immaginazione attiva, luogo del mito. E' il sogno d'una forma di pienezza umana col mondo, e non a caso Repossi rievoca nel suo lavoro i pittori dell'immaginario, romantici e simbolisti, tra paesaggio come effusione di stati d'animo ed ideale plastico del mondo antico. Ma la composizione classica non è eretta su un solido corpo materico, è evocata nella sua essenza entro la minaccia costante del dissolvimento.
Nella vita isolata in pittura, e quindi nell'equivalenza di pittura e mito, il modello sta come simbolo dell'integrità, della dignità umana. Non è un caso che il mito di Repossi abiti il paesaggio padano, una campagna familiare, quotidiana al pittore clarense. L'isola di Boecklin, l'isola del paesaggio simbolista, è costruita con materia solida, reale, con la terra lombarda, ed è popolata di figure, di segni che rimandano al vissuto dell'artista. E' ancora un giardino della memoria, ma di una memoria chiamata a salvare i suoi frammenti, a comporre l'identità, la traccia di un'avventura umana come un'impresa eroica, mitica.
Nella seconda metà degli anni Ottanta, sempre più reperti del mito - della storia della pittura - evocano la perduta sacralità del paesaggio, distendendosi magari nella campagna lombarda, tra campi coltivati, brughiere, architetture di fontane e giardini. Emblematico a questo proposito è Il casino di caccia di Ingres: il casale di Raffaello nella campagna romana, dipinto dal pittore neopurista francese Ingres nel primo Ottocento, si identifica con la cascina lombarda, ad indicare come la linea serena di fusione tra classicità e natura, perseguita da tutta una tradizione pittorica, può accasarsi anche in un paesaggio quotidiano, familiare.
Repossi negli anni Novanta, con nuove esplorazioni anche sul versante della tecnica (difesa strenuamente come dignità dell'artista, sua capacità di comunicare) va riaffermando questa lotta per una forma che racconti l'azione del tempo, della memoria, ma duri alla consunzione del tempo e della memoria.
E' Il viaggio, ora, il titolo che raccoglie le opere a metà anni '90, con la coscienza che la scoperta del mondo è già avvenuta, che a noi non resta che ripercorrerlo. Comincia dalla misurazione della distanza mitica da un luogo di struggente luminosità e malinconica vastità, in cui lasciar naufragare l'anima. Lo ritroviamo di spalle, in un cono di trasfigurazione luminosa, affacciato su un mare di vapori liquidi d'acquerello, chiuso da picchi insormontabili, come il viandante di Friedrich, il più grande pittore della spiritualità romantica della natura. Ma quegli, volgendoci le spalle sulle rocce del Nord, realizzava l'armonia con la natura. Credeva che le cose si rivelassero, oltre l'apparenza, come sono nell'assoluto. Repossi si volge invece a una promessa di felicità che, nella coscienza dell'umanità, il bambino ha soltanto atteso e l'uomo adulto ha soltanto rimpianto.
E' negato al pittore l'immergersi nelle ragioni segrete del cosmo? Il fatto è che più s'inoltra, più il paesaggio s'inabissa, si frantuma, si squaglia in mille rivoli, come negli acquerelli di fin conturbante sublimazione tecnica. Anche quando il pittore esplora, sulla scorta del simbolismo, l'altra parte, dietro la cortina del visibile (non a caso, in un grande olio, una donna nuda s'attesta bendata con una lucerna sul limitare d'un bosco sacro), il paesaggio è diventato il luogo dello sfasamento tra il linguaggio pittorico e le cose. E un luogo salvato dall'arte.
Il pittore non può non farsi archeologo, nel suo viaggio: scava sotto i segni altri segni, raccoglie e fonde quante più immagini possibili, per salvarle dall'oblio. Lo spazio dei suoi dipinti è svuotato di tutte le distanze misurabili, si forma dal farsi in primo piano e dall'immergersi nel profondo delle sue zonature, in bagliori di luci, trasalimenti d'ombre, sospensioni, attese. Qui è ben chiara la meditata estenuazione degli spazi: è la pittura, oggi, che ritorna in una coscienza di alterazioni e sfaldamenti, nel rammemorare fluttuante.
Ma Repossi non è mai stato - pittoricamente - così calmo e sereno, pur inoltrandosi per quei sentieri che fecero approdare l'idealismo europeo all'indecifrabilità, all'inesistenza del reale.
Nostalgia di paesaggio vuol dire impossibilità di paesaggio, distanza dalla natura. Dipinge il silenzio, che avvolge quella distanza, la lenta, sconfinata malinconia. Si impedisce l'ultimo abbandono romantico. Anzi, al pittore moderno tocca dipingere addirittura la nostalgia della nostalgia. E' per questo che dalla liquida coltura della memoria, in quegli acquerelli fissati con gomma arabica, miele, zafferano, spezie, torna a metter piede a terra, nel fare grande degli oli: una sostanza più terrestre e organica. Densi, di pennellata fervidamente corposa, strutturante. Paesaggi con figure: torna anche la letteratura, i temi idealistici d'alta pregnanza allegorica, imiti del paesaggio come Eden che custodisce la bellezza universale del classicismo e l'antico immaginario mediterraneo. Presenze corpose e illusive, come l'eterno femminino che incarna il sentimento del destino che grava sugli umani, sulle soglie dell'inghiottente grandiosità della natura: si leva il vento umido a spegnere una candela, ma è piuttosto il respiro naturale. Il fremito dell'impulso vitale si contrae nell'enigma di vivere.
All'ombra di antiche querce, o fra sublimi dirupi su cui svettano templi come pinnacoli, il mito intona ancora il suo canto, perché
l'esistenza individuale aspira a rifluire in una moltitudine di forze vitali. Il mito recupera la scrittura su antiche carte come un ritmo che abbia ancora la forza di reggere la metamorfosi tra tempo dell'immagine e tempo dell'esistenza, come già un secolo fa, nell'età del classicismo decadente. La vita delle forme e quelle degli uomini si erano fuse nel grande albero, nel tempio, nella montagna: presenze sacre, impenetrabili, mute e irraggiungibili. Oggi sono forme di antichi paesaggi dell'anima e della cultura: l'impossibilità d'un'ideale plastico, l'impossibilità d'un'effusione dei sentimenti nella natura. Forme di nostalgia della nostalgia, appunto, dove i turbini paesaggistici di Turner sono altrettanto presenti del brivido freddo dell'Isola dei morti di Boecklin o delle fantasmagorie classicheggianti dei nudi primigeni di Von Mareés, ma in una sovrapposizione di piani figurali che li fa recedere ad archetipi, laddove si recuperano realtà profonde.
La forma è ora un verde muto e sgomento, un colore di stupore attonito e di enigmatica impassibilità, ma ipnotico, abbacinante, che attrae nel golfo del bosco e insieme respinge, barriera impenetrabile. Resta l'impianto ritmico e strutturale di un antico naturalismo spiritualistico, la partitura formale che evoca archetipi figurativi come suggestione di misteriose cadenze, nel grembo del bosco (dove basta la magia d'un fiore secco e d'un volo di farfalla per evocare il Sogno shakespeariano d'una notte di mezza estate) e nelle immense distese deserte di presenza umana.
Miti e favole si ritraggono sullo sfondo negli ultimi anni: l'evocazione di una epifania vitale e armonica della natura sembra che voglia strappare anche il velo postromantico e simbolista, perché rocce, promontori, notti, temporali (titoli degli ultimi lavori) si liberino davvero come folgoranti, primigenie rivelazioni, con l'ineluttabilità della vita, dove un'esistenza individuale (quelle scritture che tornano, le memorie del proprio vissuto - come nelle carte del Viaggio in Irlanda) si iscrive nel ciclo della natura, tra intermittenze del cuore e inquietudini lampeggianti.
Li ritroviamo entrambi, i nostri due pittori, nel sogno della visione. Sia la luce di chiarezza diffusa e trasparente, radiosa e misteriosa, sia la luce che consuma le cose, aggredendole in un riverbero accecante o avvolgendole in un'ombra densa, rivelano che il fuori si sottrae alla conoscenza. Il paesaggio, fissato nella sua essenza di luce e ombra, è un riflesso della coscienza, una pelle cromatica via via occultata e vissuta nel tempo solo nella dimensione esistenziale di ciascun autore. Un paesaggio che potrebbe essere visto ormai dietro una finestra dai vetri anneriti.
Più il mondo reale è illuminato in trasparenza in quella qualità di luce pura che fa l'essenza della contemplazione, più la smisuratezza cala come ombra sull'uomo, a... perdita d'occhio.