Indagine sulla natura morta nel secondo dopoguerra.
Di Apollodoro, Parrasio e Zeusi, pittori greci del V° secolo a.C., si hanno soprattutto testimonianze scritte sul loro lavoro, o indirette, attraverso le opere degli epigoni che in età successiva hanno operato nella direzione da loro indicata. Essi sono noti per la ricerca di una pittura mimetica della realtà naturale, per lo sforzo di tradurre illusionisticamente il mondo naturale; la loro pittura va dunque alla ricerca della copia della realtà. Con le opere e le ricerche di questi autori, prende avvio quella rincorsa pittorica, che chiamiamo "naturalistica", tesa a costruire un "doppio" della realtà stessa, diverso e/o speculare, ma certamente "altro". E probabilmente, tale esasperata illusione, che gli aneddoti riferiscono a proposito di Zeusi di Eraclea, trova una sua "provvisoria" (ma autorevole) conclusione con la nascita e l'affermarsi del genere della "natura morta". Con la "natura morta", la mimesi della realtà raggiunge uno dei suoi vertici, forse la sua acme; di certo la nostra storia estetica parte su categorie mimetiche, anche senza giungere all'esasperato virtuosismo di quel pittore cinese che, richiesto sui compiti della sua pittura, rispose semplicemente che il suo unico scopo produttivo era stato quello di "aggiungere un filo d'erba alla grandiosità della natura".
I temi ed i generi della "natura morta", già presenti ed espressi nella immediata cerchia di Raffaello, ma vanificati dal "sacco di Roma" (1527), trovano una loro concreta realizzazione a partire dalla seconda metà del secolo XVI°, per giungere a compiuta maturazione nel corso dei due secoli successivi, Sei e Settecento.
Da allora, la "natura morta", con forme ed accenti diversi di tempo in tempo, è entrata stabilmente a far parte del panorama artistico; variamente classificata, in categorie mercantili (prima che critiche) che spesso privilegiavano i temi ed i soggetti, più che la pittura, la "natura morta" ha rappresentato un genere significativo, svolto con continuità e regolarità: e tale genere, in area padana, ha avuto un grande sviluppo, a partire da quella fiscella (la canestra di frutta) caravaggesca, che rappresenta uno degli episodi emblematici dell'arte verisimile di tutti i tempi.
Con la "natura morta", soprattutto, anche se non unicamente, non si realizza solo un'illusione, ma si dà corpo ad un "doppio" rispetto al reale; a partire dal Seicento, che del genere può essere considerato il "secolo aureo", si portano sulla tela riflessioni morali di altro tipo e natura: la "natura in posa" si trasforma spesso in "vanitas". Da doppio della realtà, l'immagine della natura morta diviene meditazione sulla vita, sulla fragilità dell'esistenza, e così via.
Se dunque la "natura in posa" rappresenta una forma inizialmente evasiva, un genere decorativo, ben presto i segni che vengono a connotarla assumono una diversa rilevanza. I fiori, i frutti, gli animali morti (cacciagione o pesci) non sono soltanto oggetti scelti per mostrare la propria straordinaria bravura di pittore; i pittori usavano i fiori ed i frutti per lo splendore: si rendono ben presto conto che i fiori recisi e la frutta raccolta perdono freschezza in tempi brevi; usavano pesci dagli smaglianti e iridescenti colori e animali di cacciagione, dalle penne variopinte e dai lucidi peli: e si rendono ben presto conto che gli animali sono ormai "morti", rappresentano il simbolo della bellezza che si spegne, destinata alla putrefazione.
Il passaggio è breve (e relativamente rapido): dalla bellezza alla fragilità dell'esistere; dal rigoglio risplendente, simbolo di una vitalità prorompente della natura, si giunge al contrario ,ad una riflessione sulla fragilità della bellezza e della vita, sull'incombenza della morte, sul destino dell'uomo. Tale fragilità viene confermata da altre presenze (1), che presto compaiono nei quadri del genere, come il vetro del bicchiere, la clessidra che indica il trascorrere del tempo, il cranio, che della bellezza umana rappresenta l'estrema consunzione (ed il teschio è da sempre presente nelle vite dei Santi meditativi), fino a giungere alla rappresentazione della bolla di sapone, lanciata in aria dagli amorini: come si legge nel cartiglio nello studiolo di San Girolamo (tela di Joos Van Cleve, di derivazione dureriana) anche l'uomo diviene un "homo bulla", una bolla di sapone, evanescente e bella, ma destinata al rapido dissolvimento. La stessa bellezza del corpo, nasconde lo scheletro, che fa la sua comparsa, attraverso il teschio. In alcuni straordinari ritratti (Jacopo Ligozzi, tra Cinque e Seicento), mentre il "recto" mostra il ritratto giovanile dell'uomo o della donna che lo hanno commissionato, il "verso" mostra le due teste mozze, ormai in fase di rapida decomposizione, prossime a diventar teschio: se permangono i simboli della bellezza che avevano ornato i due giovani in vita (nel "recto" delle due tele), di certo assai più drammatica è la dimensione che viene delle due teste posate sul cuscino, ormai ischeletrite, che conservano appena una vaga somiglianza con i due ritratti.
La "natura in posa" diviene "vanitas", "memento mori", recuperando il Qoelet, che annuncia che tutto è vanità: "vanità delle vanità, tutto è vanità".
L'evoluzione non è certamente solo pittorica: va considerato il clima della controriforma, che, propugnando il rinnovamento della Chiesa, spinge verso il recupero di mai sopite forme di espiazione, porta a riflettere sulla fragilità dell'uomo, di fronte alla persistenza della "vera" vita, successiva a quella terrena, sulla brevità della vita di fronte alla durata del giudizio di Dio; in questo clima, dai forti connotati morali, anche la "natura morta" assume l'andamento di una riflessione, e riempie gli studioli degli uomini di cultura del tempo.
Per tutto il Seicento (ed anche per parte del Settecento), la "natura morta", sia come soggetto di pittura d'evasione (2), sia come soggetto di pittura di riflessione, rimane e convive a fianco della pittura di figura, considerata più d'impegno e di maggiori qualità artistiche.
Con l'evoluzione culturale del Settecento, le "vanitates" verranno parzialmente meno, fino a sparire del tutto, mentre il genere della "natura morta" si arricchisce di ulteriori specificazioni, assumendo andamenti sempre più decorativi (i grandi vasi floreali sembrano sottolineare la dimensione del rigoglio, più che quella della riflessione meditativa).
La "natura morta" viene in parte a perdere, i suoi caratteri essenziali: rimane un genere appartato, soppiantata" spesso da altri "generi" che, di volta in volta, il mercato ed il gusto portano in primo piano. Sulla spinta del realismo ottocentesco, il genere più di moda diviene l'aneddoto popolare, il racconto dialettale.
La "natura morta" ritorna come produzione essenziale nella ricerca artistica alla fine del secolo scorso ed agli inizi del nostro: è Cezanne a definire il ruolo della "natura morta", con la sua necessità di ridar forma e volume alle cose, mantenendo i colori e la brillantezza delle immagini impressioniste; la tavolozza ariosa dei pittori di impressione si piega a ridar corpo non solo alla "Montaigne Sainte Victoire", o alle maniche dei "Giocatori", ma anche alla frutta che copiosamente il maestro di Aix en Provence sparge sui suoi tavoli.
A partire da Cezanne dalla "antologica" del maestro francese (1907), che di fatto apre la strada alla ricerca contemporanea, la "natura morta" è tornata nei cataloghi di molti autori: essa ha vissuto le ricerche del nostro secolo, non letta o interpretata come un "genere minore" o un "genere a se stante", ma come uno dei possibili luoghi della riflessione artistica. E forse non c'è autore che abbia attraversato il mondo della figurazione verisimile, che non si sia dedicato alla natura in posa, definendo attraverso il mondo della natura un suo personale rapporto con le cose.
L'indagine che vogliamo compiere con questa esposizione si riferisce ed insiste su un'area limitata (grosso modo coincidente con una Lombardia orientale, che partendo da Milano giunge ai confini del Veneto ad est ed a quelli dell'Emilia a sud); egualmente limitato è il periodo preso in considerazione: la mostra vuole essere una verifica sull'attualità. Per questo, si analizzano le nature morte, soprattutto dell'ultimo decennio, con uno sguardo, per accenni, alle opere del secondo dopoguerra. La nostra riflessione vuole avere il carattere della verifica campionaria di quanto sta accadendo: sono stati presi in considerazione un limitato numero di autori, che producono attualmente "nature morte", ed una ancor più limitata quantità di riferimenti, recuperi, richiami, attraverso poche opere di alcuni autori che nel secondo dopoguerra si sono dedicati, tra gli altri generi, anche a quello che in questa sede interessa documentare.
Tuttavia una scelta di fondo ha sorretto il nostro lavoro: cogliere la presenza della "natura in posa" (3) in quegli autori che al genere si sono dedicati con discreta continuità, piuttosto che con coloro che solo sporadicamente ed occasionalmente hanno avuto fugaci commerci con il mondo degli oggetti in posa.
Come abbiamo già ricordato, non interessa nemmeno una campionatura completa; l'indagine è realizzata "per esempi", in modo da definire alcuni ambiti specifici, alcune modalità presenti, alcuni accenti rintracciabili. L'allargamento espressivo, anche attraverso altri autori, avrebbe senz'altro maggiormente aiutato la comprensione del procedere della ricerca, ma non avrebbe complessivamente aggiunto riflessioni nuove alla dimensione globale che viene ai lettori da questa "carrellata" sulla "natura morta" contemporanea.
Come abbiamo accennato poco sopra, gli autori qui richiamati - in verità pochi -che si sono dedicati alla "natura morta" nel recente, secondo dopoguerra, lo hanno fatto per differenti ragioni. La più importante e più consistente, la più facilmente analizzabile, è quella formale: molti autori hanno utilizzato gli "oggetti in posa" per dare alle cose ed allo spazio una dimensione formale.
Prima di procedere nell'analisi, occorre richiamare succintamente due considerazioni: da una parte il clima del dopoguerra che si manifestava con il bisogno di un recupero colto, aperto all'Europa, dopo la chiusura narrativa dell'arte di regime; dall'altra, la straordinaria "lezione" - pittorica e morale ad un tempo - che veniva dall'esempio di Morandi, che - tra l'altro -"insiste" ed opera nell'area padana, per quanto in posizione più decentrata, rispetto a quella che stiamo analizzando.
La riscoperta ed il bisogno di recuperare le avanguardie sono i termini essenziali del procedere poetico nell'immediato dopoguerra: alla riconquistata libertà {civile e politica) si aggiunge - ne è quasi corollario ineliminabile - un entusiasmo produttivo, che si traduce in operazioni davvero straordinarie; occorrerebbe rileggere la vicenda poetica ed umana dei protagonisti del recente dopoguerra, per rendersi conto della quantità di stimoli ed entusiasmi messi in luce in quel frangente. E mentre le ricerche "alte" venivano schierandosi negli "opposti estremismi" (se è lecito il recupero di un termine politico) di astrazione e realismo, con il correlato espressivo di "formalizzazione" ed "impegno sociale", gli autori -a volte gli stessi - che si dedicavano e quando si dedicavano alla "natura morta" lo facevano per esigenze puramente formali. Questo riguardava non solo gli autori dediti al realismo, seguaci di una pittura verisimile, ma spesso anche gli autori che si addentravano nelle inflessioni dell'informale: spesso, questi ultimi si dedicavano o aprivano parentesi produttive, prendendo spunto dal rapporto oggetto-spazio; la ricerca della "natura morta" serviva per definire percorsi formali, da parte degli autori più legati al realismo; o per macerare le materie umorali in spunti concreti, da parte di quelli che si muovevano verso le scansioni non figurative (variamente dette, in quel periodo, "astratte" o "informali", ma che una lettura critica più corretta, venturiana, porta meglio a definire "astratto-concrete").
Per gli autori realisti, la "natura morta" aveva una storia più lunga: essa era stata già frequentata, con intenti simbolici, in età fascista. Guttuso ricorda, nei suoi diari, come gli attrezzi da lavoro delle sue "nature morte" negli anni bellici (una falce posta obliquamente su una sedia, per esempio) recuperassero in memoria, in absentia, i simboli dei "partiti socialisti" o del lavoro, i simboli politici che alimentavano idee e speranze negli anni bui dell'oppressione fascista. L'utilizzazione della "natura morta", oltre che rappresentare un luogo della mente, una riflessione di natura formale, un "genere" ancora abbastanza ambito dal mercato, e pertanto utilmente praticabile, evidenzia connotati differenti, a seconda dei punti di vista. In questa dimensione storica, i pochi esempi che abbiamo voluto raccogliere (e li abbiamo raccolti nell'area "ristretta" del nostro territorio d'indagine: Bergamo, Brescia, l'Alto Mantovano), documentano adeguatamente la varietà delle proposte espressive; si tratta di autori che sembrano adeguatamente documentare le esperienze che abbiamo sommariamente delineato.
(...) la cultura della "natura morta" di secentesca memoria (...) e la relazione tra immagine e simbolo ritornano espliciti nelle opere di Carlo Pescatori (Brescia 1932): se andiamo a rileggere le recenti antologiche del pittore bresciano (una si tenne alcuni anni orsono, anche a Calcio), ci si imbatterà senz'altro in un titolo emblematico: "Vanitas" (e celebre è la sua sequenza, sette opere, denominata "Settimana delle vanitas"). In Pescatori il bisogno di ritornare al "memento mori" di antica memoria è impellente: esso traspare sia nella scelta degli oggetti rappresentati, sia nell'uso di colori e cromie espressionisti, sia infine in una composizione serrata, che tutto riporta a se stessa, elimina le pause, l'atmosfera, rendendo l'immagine una sorta di struggimento nei confronti della realtà, che si presenta come irraggiungibile: l'autore confessa che l'unica realtà possibile -l'unica parola da pronunciare- è quella della pittura: e la parola detta diviene per questa via un soliloquio.
(...) Le differenti vie (sostanzialmente due/al massimo tre) non servono che a documentare un'ipotesi di lettura: essere, ancor oggi, la "natura morta" quel particolare elemento espressivo che documenta i dissidi del mondo quotidiano; attraverso il "genere" si manifesta adeguatamente tanto il bisogno di parlar per simboli, che anche la pittura contemporanea sembra voler portare in primo piano, quanto la costante necessità poetica di parlar per metafora dei destini dell'arte - forse più che della vita -: tutto ciò è possibile, dal momento che è l'arte (il museo) il vero luogo/oggetto del contendere, più che il mondo esterno, ormai disvelato e conosciuto attraverso altri strumenti d'indagine e di conoscenza.
L'arte si conferma una forma -economica- di conoscenza; essa muta nel contempo l'oggetto d'attenzione, dedicandosi a riflettere sul proprio essere, come una delle possibili "chiavi" per comprendere in generale la propria necessità nel mondo: e l'arte stessa, nel suo mostrarsi, nel suo essere studiata e praticata dall'arte, diviene metafora della fragilità del nostro esistere: le "vanitates secentesche" divengono chiave per comprendere le nuove vanità dell'agire artistico in un mondo disattento.
Brescia, giugno 1994
Note:
1) A. Veca, Vanitas, Il simbolismo del tempo, Bergamo, Galleria Lorenzelli, 1981, pag. 11: "La sua caratteristica più rilevante è la presenza, nella composizione, di alcuni oggetti - come il teschio o altri reperti umani - particolarmente significativi del "Memento mori", ma anche della stabile ricorrenza di altri oggetti - come il libro, la candela, la clessidra e l'orologio, il mappamondo e l'astrolabio, il fiore e il frutto, la coppa e il bicchiere - che alternativamente richiamano la misurazione e il trascorrere del tempo, la sapienza accumulata nello studio, le preziosità fragili del mondo, i sensi dell'uomo".
2) F. Zeri, Il punto sulla Natura Morta; in P. Consigli Valente (a cura di), Nature morte del Seicento e del Settecento, Parma, Banca Emiliana, 1987, pag. IX: "La Natura Morta è oramai un fatto decorativo, di cui ogni casa, ogni dimora rispettabile deve possedere più esemplari; mediati o studiati direttamente, gli schemi compositivi tornano sempre ai modelli e ai prototipi pubblicati a Roma nei primi tre decenni del secolo (XVII, n.d.r.)".
3) R. Tassi, Divagazione sulla Natura Morta; in P. Consigli Valente (a cura di), Nature morte del Seicento e del Settecento, Parma, Banca Emiliana, 1987, pag. XIII: "La natura morta apre una visione sulla vita segreta delle cose; fonda la loro autonomia, nel momento che, liberandole da un contesto nel quale rimanevano degradate al servizio dell'uomo, le fa vivere libere, isolate e nuovamente misteriose in uno spazio ad esse specifico".