Narra Borges, in uno dei suoi brevissimi ed illuminanti racconti, un evento fantastico che appare esemplare per ogni artista.
Un pittore, racconta, si trovò ad affrescare un'enorme parete bianca: fu preso dalla frenesia di dipingere, e trasferì sul muro tutte le sue emozioni e tutti i suoi pensieri. Dipinse mari, cieli, alberi, prati fioriti, ...
E ancora dipinse case, ritrovi, la briosa vita cittadina che si affaticava ad inseguire le cose ed i sogni.
Poiché la parete era enorme, il pittore non riusciva a vedere tutto il suo lavoro, ma solo ogni frammento, mentre freneticamente lo eseguiva.
Quando ebbe finito, si allontanò di alcuni passi per guardare il suo "murale" e scoprì che aveva dipinto il suo autoritratto.
Forse a me, raccontando a memoria, sono occorse più parole di quante non ne abbia spese il grande scrittore nel suo paradosso. Di certo, mi ritrovo, spesso, nella condizione di quel pittore.
Di fronte a sette tele bianche, ho cercato di scandire il ritmo settimanale della mia "vanitas", il senso segreto delle cose che si trasformano, senza che io riesca nè a fermarne la modificazione, nè a governarne il cambiamento. E se c'è qualcosa che trascorre da una "natura morta" all'altra, è rintracciabile nello sfaldarsi della rappresentazione, che si fa sempre più "immagine" lontana dalla referenzialità di partenza.
Ed è proprio in questo lento muoversi del soggetto rappresentato, che risiede il senso di un mio essere nelle mie "vanità".
Brescia, 17 luglio 1990