L'antologica di Carlo Pescatori viene scandita su alcuni momenti esemplari della sua carriera artistica. Più che un percorso minuzioso e puntuale - percorso da noi già compiuto (1) in anni
recenti -, abbiamo preferito organizzare la rassegna su alcuni
momenti antologici, sì da dare all'esposizione il carattere
rapsodico. Del resto, nel senso stesso dell'antologica
convivono, da una parte, il bisogno di definire un percorso,
e dall'altra il bisogno di allineare pagine significative, all'interno
di questo percorso stesso. L'andamento rapsodico non fa che sottolineare
questa duplice intenzionalità.
Il primo nucleo tematico che vogliamo prendere in esame appartiene
alla cultura degli anni Settanta. Pescatori ha ormai 40 anni,
una raggiunta maturità, ed un progetto, ancora in fieri.
L'artista bresciano si trova - per scelta e per vocazione - inserito
nel gruppo di autori che fanno capo alla generazione realista
(2) degli anni Trenta, la cosiddetta generazione del "realismo
esistenziale". Gli anni Settanta, per Pescatori e per tutta
la generazione, rappresentano un passaggio importante: è
il periodo in cui si consumano le ultime tensioni espressive,
ed è il momento di una verifica "interna" di
grande rigore. Anche Pescatori verrà a scontrarsi con
la modalità utilizzata nel fare immagine, caricata di
valenze civili: Pescatori appartiene all'ultima generazione che
è cresciuta sulle ali culturali di un impegno, che il
filosofo Sartre aveva teorizzato nel secondo dopoguerra.
La componente dell'impegno appare, in queste opere, attraverso
il dato dello stile: Pescatori utilizza, come elemento base della
sua narrazione, due recuperi colti, la canestra di frutta di
Caravaggio ed il frammento di statua greca o comunque
classica. Immerge però questi elementi all'interno di
una immagine, dominata da forti accentuazioni metalliche, sia
attraverso il ricorso ad elementi propri di questa metallizzazione
- per cui la frutta o la testa stesse tendono a metallizzarsi
-, sia attraverso elementi che vengono dal mondo della meccanica
- ed il pittore utilizza, per questa ragione, pistoni, righelli
metallici, ... -
I due recuperi non sono occasionali, né ininfluenti sul
processo complessivo della pittura dell'artista bresciano: essi
vengono a caratterizzare in senso proprio, tutto il discorso
pescatoriano, e rappresentano la scelta linguistica definitiva
dell'artista. Il recupero degli elementi colti, tratti dalla
storia culturale specifica cui guarda come artista, appare la
componente dotta della sua operazione: Pescatori ha sempre la
coscienza di scrivere una pagina in una storia lunghissima, già
scritta per moltissimi volumi, ma non mai conchiusa. Pescatori
ha cioè la coscienza di lavorare all'interno di una storia
che è quella dell'arte, dove forse le pagine, per stare
al riferimento precedente, non sono tutte uguali, dove forse
i segni e le immagini non hanno mai stessa perentoria certezza.
E pure, Pescatori sa bene che la parola poetica, quando è
detta, piccola o grande che sia, diviene necessaria: è
la necessità stessa della poesia.
Allora gli elementi colti vanno anche letti nel loro essere,
nella loro fisicità: da una parte la canestra caravaggesca
si inserisce nel recupero di tutta una cultura, che vede la storia
lombarda ruotare attorno ad un progetto, che trova in Caravaggio
il suo punto fermo di riferimento; dall'altra la classicità
continua, nella storia culturale occidentale, a rappresentare
la partenza di un itinerario che giunge fino a noi attraverso
i mille sentieri della cultura e dell'arte.
Pescatori fa propri entrambi i discorsi. Da studioso di storia
dell'arte, da allievo di un padre restauratore che lo ha portato,
nella gioventù, nelle valli alla scoperta di affreschi
perduti, Pescatori è ben consapevole del discorso artistico
lombardo, che in Brescia, e nell'asse Bergamo-Brescia, ha un
suo punto di forza, sulla via della conquista della realtà.
Il recupero di Caravaggio appare dunque come un "omaggio"
a tutta una cultura, e tutta una storia.
Su un piano diverso, l'elemento classico rappresenta il recupero
di una volontà estetica, quando l'arte si pone, per la
prima volta, in termini disinteressati all'interno dell'economia
del mondo - ed in questo, dunque, una rivendicazione rivoluzionaria
del messaggio artistico -. Non si tratta di un marmo o di un
capitello, presi nella loro assoluta bellezza: spesso anzi sono
corrosi dal tempo, appaiono come elementi ormai inglobati nelle
dimenticanze di una memoria che taglia e sfolla. L'opera dell'artista
si pone come "ponte" cosciente verso una realtà
che non è possibile sopprimere ("Exegi monumentum
aere perennius..."(3)).
A fianco della cultura espressa dal recupero, vi è il
discorso stilistico, espresso dall'opera in se stessa. Pescatori
colloca gli inserti ed i frammenti all'interno di ambienti asettici,
quasi da sala operatoria: non basta, troppo spesso, una marcescente
foglia di vite a dare calore e verità naturali all'ambiente
stesso. La luce è fredda, spesso vitrea. È una
luce che non proviene da nessun luogo, è una luce senza
tempo, oltre che senza spazio, che sembra definire un'eternità,
una sorta di assoluto temporale, in cui sono inseriti gli oggetti.
Quando emergono le ombre, esse appartengono ad una volontà
rappresentativa, non sono frutto di una fonte luminosa ben definibile
e percepibile.
Per le stesse ragioni che abbiamo poc'anzi analizzato, l'analisi
della luce in Pescatori va compiuta con un occhio alle ragioni
della pittura. E le ragioni sono rintracciabili proprio nella
volontà di spostare la storia rappresentativa dalle certezze
di una luce che ha una provenienza specifica, alle incertezze
e/o inquietudini di una rappresentazione cui viene a mancare
la certezza, il punto di riferimento. Pescatori, cioè,
costruisce un'interna contraddizione, tra una rappresentazione
apparentemente regolare, quasi eseguita con le proiezioni ortogonali,
che appartengono alla storia del "geometra" Carlo Pescatori,
e l'assoluta mancanza di fonte luminosa, che apre lo spazio alle
suggestioni di un universo senza stabilità e punti fermi.
Il che rappresenta una duplice inquietudine, perché anche
la proiezione ortogonale viene così a manifestarsi all'interno
di uno spazio che non ha coordinate fisse.
In questi ambienti, in un contesto spaziale e luminoso siffatto,
ruotano gli oggetti della rappresentazione, tra immagini di un'autobiografia
quotidiana (il cavalletto, per esempio), fino a giungere a più
spersonalizzati spazi, che hanno più il sapore della camera
operatoria che dello studio di pittore. Gli oggetti dello studio,
che spesso compaiono, vengono amplificati nella loro fisicità,
proprio attraverso la condizione straniante (4) di un'ambientazione
che non definisce in particolare, ma lascia sospeso in generale
i termini del racconto.
Continuiamo, per comodità, a parlare di "racconto":
è il retaggio della generazione realista, anche se, ne
siamo consapevoli, ci si muove ormai in altre direzioni.
Pescatori va alla scoperta di un'interpretazione del mondo, che
realizza attraverso lo stile; lo stile metallizza gli oggetti,
gli stessi frutti della canestra, come se tutto nel nostro
mondo subisse un processo omologante, di plastificazione, di
una realtà in continua fase di perdita della vitalità
organica. E' un modo diverso, o specifico, di darci il senso
di una perdita, la dimensione di uno smacco storico, che l'uomo
ha subito di fronte all'invasione del consumo, che tutto ha travolto.
Dietro l'oggetto, ormai, non c'è che l'avere e si è
perduta la memoria dell'essere.
La vita sembra ormai apparire raggrinzita nelle foglie o nei
tralci, negli appassiti racemi, oppure sembra rifiorire, per
interne consunzioni, solo nelle citazioni classiche: come se
la vita altro non fosse che il persistere della cultura, all'invadenza
di un modello che non poteva che perdersi nel mare delle cose
consumate e consumabili. La forza dello stile sembra dunque,
in questo primo nucleo pescatoriano, far da argine al perdersi
della memoria, alla poetica dell'assenza, alla constatazione
di una sconfitta e di uno smacco.
L'impegno "politico" di Pescatori si misura nel suo
essere, come soggetto interpretante, nel mondo contemporaneo.
Le valenze politiche di un discorso come quello che andiamo svolgendo,
ebbero - anche da parte di chi scrive - letture più sociali
ai tempi in cui comparvero; a distanza di anni, quasi venti,
le opere di allora possono essere più agevolmente interpretate
come una metafora complessiva del mondo, in quelle componenti
che abbiamo, ricorrendo all'iconografia, individuato.
Gli anni Settanta, almeno nella seconda metà, rappresentano
anche una revisione di quanto andiamo indicando. Ai motivi generali
di quell'età che fu definita "di piombo", altri
particolari vanno aggiungendosi, autobiografici, come quelli
riferibili allo sforzo di portare ad una normalità di
vita la piccola figlia Carlotta, minata alle origini. Al dramma
collettivo di un'epoca e di una generazione, Pescatori aggiunge
il dramma individuale, dramma taciuto, sofferto in silenzio,
macerato nel proprio animo. E Pescatori sembra, almeno per un
attimo, abbandonarsi all'impossibilità produttiva, sembra,
nei cupi autoritratti di schiena della fine anni Settanta/inizi
anni Ottanta, denunciare un'impossibilità al dialogo:
l'artista è sempre di schiena, il suo spazio {studio o
cortile) è sempre rinserrato e soffocante. Anche il piano
autobiografico tocca l'acme del dolore nella morte di Carlotta.
Ma forse dà all'artista la coscienza di aver dato quanto
era possibile dare, di aver pagato un pesante debito ad una paternità
vissuta.
Dopo una lenta gestazione, nasce, a metà degli anni Ottanta
{1985-86), il secondo nucleo della nostra esposizione, il ciclo
intitolato Eros e Thanatos, che Pescatori elabora sulla
scorta di una tragedia individuale, ma anche sulla rimeditazione
di una crisi generazionale. Rispetto ad altri autori degli anni
Trenta la sua svolta appare un attimo in ritardo: sono le condizioni
autobiografiche cui abbiamo di necessità fatto sommario
cenno a determinare il ritardo. E pure, tale svolta non è
meno completa e meno totale. Pescatori con il ciclo indicato
sposta, dal piano contingente al piano assoluto le sue riflessioni
sull'essere artisti in una società come la nostra, dominata
dal consumo e dalla rapida obsolescenza dell'informazione utile,
anche dell'informazione artistica.
L'accostamento tra Eros e Thanatos non è
certamente privilegio della letteratura romantica; anche se -
è facile intendere - nella letteratura romantica si ritrovano
le più alte espressioni di quell'accostamento così
essenziale e stringente all'interno della nostra cultura occidentale,
rappresentando Eros l'amore, l'istinto sessuale, e dunque il
principio della vita, e Thanatos la morte, e dunque la cessazione
della vita, almeno nei suoi termini terreni. Del resto, il nome
greco thanatos, se utilizzato con la lettera maiuscola,
allargava il suo significato al luogo stesso dei morti, l'Ade,
ed in tale modo viene identificato con l'Inferno nel Nuovo Testamento.
Il rapporto Amore-morte è dunque contrasto essenziale
nella nostra storia culturale; ne consegue, che forse il lettore
porta con sé accostamenti particolari, come quelli, celeberrimi,
del grande Poeta di Recanati che accomunava i due termini come
"fratelli" ingenerati ad un tempo dalla sorte (5).
La lettura leopardiana è talmente moderna, che anche la
Morte viene interpretata, contro ogni fallace rappresentazione,
come una "bellissima fanciulla". Ne va scordato, per
altro, che il verso di Manandro posto a chiosa del Canto leopardiano,
accomuna, per via interna, i due termini, quando afferma che
"amore giovane colui ch'al cielo è caro".
Il ciclo pescatoriano si muove attraverso alcuni momenti esemplari,
tanto dal punto di vista religioso, con cui chiare e frequenti
sono le analogie, quanto dal punto di vista laico, nella duplice
lettura di un processo umano e di una autobiografia di cui abbiamo
necessariamente fornito le coordinate. Pescatori apre il ciclo
con l'Incontro, dal sapore più laico, che religioso;
il ciclo si stempera e si addolcisce nella Annunciazione,
in cui chiaro è il rapporto di tipo religioso, tocca un
apice poetico attraverso la Natività, in cui ancora
evidenti sono i segni della relazione con la vicenda cristiana,
e si conclude, dolorosamente, sulla Morte, che è
tema che riassume tanti andamenti della storia cristiana, ma
anche tanti riferimenti ad una' più vasta storia umana.
L'impostazione delle tele (e per lapsus freudiano stavamo scrivendo
"pale") è solenne e grandiosa: nessun elemento
turba l'immagine, concentrata come è su pochi aspetti
particolari, soprattutto sui protagonisti. Preme, se mai, sottolineare
come i protagonisti vivano in un interno raccolto e chiuso, nel
quale la luce appare come una presenza fugace, forse sempre funerea,
a sottolineare quella sorta di metallizzazione che subisce il
protagonista e trova la sua acme nella scena della Natività.
Il discorso della luce in interno, che tanto spazio avrà
nelle vicende successive della pittura pescatoriana, va subito
indicato, dal momento che è uno dei nodi della cultura
visiva contemporanea, soprattutto in un'area come quella lombardo-veneta,
che ha nella luce la sua "storia". E Pescatori ne è
consapevole: la ricca quantità di citazioni, collocano
l'opera consapevolmente all 'interno di un percorso artistico
plurisecolare; Pescatori, cioè, vuole iscrivere la propria
opera all'interno di una tradizione specifica, con cui si identifica
o, più verosimilmente, con cui sente sintonie ed analogie.
Proprio per questo, le quattro opere che abbiamo indicato con
i titoli "classici" sono state, dall'autore, diversamente
intitolate: inoltre, le opere di Pescatori si muovono in una
storia di riletture e sintonie all'interno della storia dell'arte.
La prima tela, Uomo e donna (noi abbiamo parlato di "Incontro"),
si muove sulle orme dell'Umanesimo nordico: siamo al Dürer,
ed ai suoi Adamo ed Eva. Lo spazio e la luce hanno subito una
radicale trasformazione, dal momento che lo spazio sembra perdersi
nel vuoto di una prospettiva preumanistica, mentre la luce sembra
diffondersi da una sorgente non chiaramente identificabile. Ed
è sintomatico che, nel vigore dei corpi, solo quello maschile
sia ricoperto dalla foglia di vite, mentre la donna sia in parte
occultata dal suo stesso gesto, in parte dalle ombre dello spazio
opalescente, costruito dal pittore.
La dimensione narrativa è ridotta al minimo; ogni dettaglio
narrativo viene ritenuto supervacaneo, confermando questa scelta
di stringatezza le ragioni autobiografiche, oltre che culturali,
cui più sopra abbiamo fatto riferimento. Pescatori, misurandosi
con la storia della propria condizione umana, e con la storia
della cultura che ritiene più profondamente sua, elimina
ogni accattivante dolcezza: l'opera è nuda e spoglia,
come l'uomo di fronte alla verità.
Anche l'utilizzazione dei riquadri del pavimento, di stampo tardo-gotico,
è funzionale al perdersi senza dimensione oltre la porta
socchiusa; di cui non intravediamo che una luce senza origine,
una sorta di pulviscolo luminoso, di cui non conosciamo la causa.
Discorso umano e sensibilità religiosa tendono costantemente
a mescolarsi nel pensiero del pittore; il processo metallizzante
è appena agli inizi, anche se già ne intravediamo
i primi segni, soprattutto nel corpo della figura femminile.
Il secondo tema, l'Annunciazione, che Pescatori titola
"Incontro - momento d'amore" si muove su una
dimensione più cupa. L'ambientazione è ancora più
spoglia: ancora una volta l'occhio non trova un punto fermo,
ma si muove su un'apertura di porta socchiusa, senza un altrove
chiaro, su una luminosità appena intravista, un pavimento
a losanghe, più definito e più classico, una progressiva
metallizzazione che tocca il corpo dell'uomo.
I due protagonisti dell'incontro d'amore vengono anch'essi dalla
dimensione classica: lui è un "musico" di Raffaello
(tratto dal Parnaso), mentre la figura femminile proviene
da un raffaellesco di due secoli orsono, da Ingres ("La
source"), immagine che può consentire al pittore
di rappresentare una figura innamorata e schiva, una giovinetta
casta, trepidante, ma riservata.
Anche quest'opera propone una frattura, in fine di pavimentazione,
per dare il senso del vago: alla classicità dell'immagine
si contrappone la anticlassica struttura dell'evento, più
in linea con le composizioni dei tempi post-moderni che stiamo
attraversando.
Alla metà degli anni Ottanta, mentre i più giovani
- le più giovani generazioni - stanno imponendo tra i
tanti postmodemismi anche il citazionismo, assistiamo al desiderio
del pittore della generazione precedente di misurarsi sui temi
dei più giovani, sia pure da una diversa angolazione -
forse più alta, se oggi avesse un senso parlare ancora
in termini valoriali -.
Pescatori tuffa dunque le sue prime immagini in una classicità
rivissuta all'interno dei propri pensieri, in una dimensione
narrativa spoglia, scabra, essenziale, per dare alla propria
autobiografia il sapore dell'evento totale, ma anche per trovare
nella poesia quelle ragioni profonde che forse non riesce a trovare
nella storia. Da qui il senso segreto di una vicenda costruita
con il silenzio dei protagonisti: è un ossimoro visivo
di straordinaria efficacia, muovere in silenzio una vicenda,
intessuta e scavata con il gridato di un espressionismo rivisitato.
La terza opera è la Famiglia (noi abbiamo parlato
di Natività): è un'immagine felice, o apparentemente
felice. Il bambino gioca con un'altalena, i cui capi sono tenuti
dalla madre, accovacciata sul pavimento, e dal padre, ritto e
metallico, nel centro della stanza. Il bambino osserva incerto,
forse impaurito.
Il pavimento riprende l'andamento della prima opera; ancora vi
è l'interruzione e lo schema della porta - portale, in
questo caso - socchiusa; una zona separa la stanza dal luogo
del bambino, una sorta di angolo protetto.
Eppure non vi è gioia: ancora una volta manca la parola,
manca l'aria. La luce, questa livida luce che tutto tramuta in
metallo, è onnipresente, scivola sulla superficie dei
personaggi, apre alla dimensione di stridente metallizzazione;
l'opera si struttura con un disordine più drammatico,
rispetto all'ordine compositivo delle opere precedenti. Del resto,
il riferimento iconografico va alle radici stesse dell'espressionismo
pescatoriano, alla "Famiglia" di quell'Egon Schiele
che tanti drammi ha saputo intrecciare alle sue rappresentazioni
domestiche.
Il riferimento sposta l'autobiografia culturale di Pescatori
su termini più moderni: ma è uno spostamento temporale
che dura un attimo. Il ritorno bruciante - nell'opera terminale
del ciclo - verso la cultura amata di un'antichità riletta
nel proprio passato autobiografico non può che cadere
su una pagina di quel manierismo bresciano che della cosiddetta
"scuola bresciana" rappresenta uno dei nuclei di forza.
Il suo "Requiem" (noi abbiamo parlato di Morte
per dare il senso tragico dell'evento) si basa su un'opera del
Moretto, "Il Cristo e l'Angelo", dall'indicibile sofferenza.
La stessa struttura dell'opera riprende il tema morettesco: la
scalinata, il volto corrucciato dell'Angelo che presta il suo
sembiante alla figura femminile nel ciclo della coppia, un sudario
intessuto di spezzettature cubiste, a ricoprire l'uomo di cui
intravediamo la sagoma antropomorfa e pochi tratti.
Il cerchio si chiude: anche il pavimento si è semplificato.
La ridondanza narrativa di scalinata e colonnato non elimina
la concentrazione trattenuta del dramma della morte dell'uomo,
metafora evidente di una condizione universale, confessata ampiamente
dallo stesso autore, che presentava il suo ciclo, nel 1987, attraverso
un'autopresentazione sotto forma di lettera al "Prof. Dott.
S.F. di Wien". Nel testo, Pescatori parla esplicitamente
del dottor F. che "intende continuare l'analisi senza l'ausilio
del divano, ma ricorrendo al linguaggio che mi è più
congeniale, la pittura" (6) il riferimento autobiografico
appare evidente e confessato.
Il ciclo nasce come esperienza sofferta di un dramma individuale:
la grandezza dell'artista si misura nella sua capacità
di elevare il momento individuale a dramma universale. E tale
passaggio avviene per il tramite dei riferimenti culturali e
dello stile, che abbiamo sommariamente indicato ed analizzato.
Il grande ciclo rappresenta nella storia che stiamo delineando
non solo lo snodo essenziale di tutta la vicenda, ma anche l'anello
di passaggio dalla produzione degli anni Settanta, a quella attuale,
che abbraccia anche gli anni Novanta. Pescatori passa dalla riflessione
che abbiamo indicato, ad altra diversa, caratterizzata dal discorso
sulla "vanitas" (7).
Ancora una volta, l'artista bresciano costringe il lettore a
guardare la storia, a misurarsi con la storia. Questo è
tanto più vero, quanto più netto è stato
il passaggio, con il ciclo richiamato, nei confronti non solo
di una vicenda storica, ma anche di una vicenda biografica.
La natura morta caricata di valenze morali diviene la "vanitas"
che caratterizza, almeno in parte, l'ultima fase produttiva della
sua carriera. Pescatori si misura, ancora una volta, sia con
le coordinate dello stile, sia con le coordinate di una vicenda
artistica letta esclusivamente in chiave etico-morale. L'uomo
tende a valorizzare il proprio lavoro, attraverso la componente
morale che ne sostiene lo sforzo e l'impatto.
Tutti i simboli della caducità della bellezza, che sono
tipici delle "vanitas", vengono recuperati, anche se
caricati di altre valenze: così compare il fiore, che
della bellezza è l'esito più trionfante, così
viene recuperato il frutto, con tutta la storia che collega l'uomo
a certi frutti - la mela, per esempio -; così, ancora,
viene recuperato il manufatto artistico, il tappeto, che rappresenta
l'ultima sintesi del discorso che andiamo svolgendo: nel tappeto,
infatti, esiste sia la componente umana, che scrive una storia
o una preghiera, ma anche la componente estetica, che ne delinea
l'armonia e le cromie, tanto, infine, la componente di fragilità,
dal momento che anche lo smagliante tappeto è destinato
a consumarsi per la sua stessa funzione di essere oggetto su
cui si cammina, ci si stende, ci si inginocchia e si prega. Il
tappeto alla bellezza visiva aggiunge una carica non piccola
di simboli, che appartengono certamente ad altra cultura, ma
che agevolmente possiamo leggere nelle loro manifestazioni, anche
se non compiutamente interpretare.
Agli oggetti "base" della composizione, cesta, frutta,
vaso con fiori, tappeto, spesso Pescatori ne aggiunge altri:
si tratta, per lo più, di esigenze compositive. Pescatori
tuttavia utilizza le esigenze compositive per spostare i significati:
il flauto dirà dunque di una solitudine canora, il drappo
casualmente gettato sulla sedia, o sul davanzale, dirà
con le sue pieghe i drammi del sudario, la sedia o il cavalletto
o il piccolo mobile diranno di una domestica consuetudine con
gli oggetti dello studio, come se dipingere non fosse altro che
questo mettersi alla finestra ed osservare gli angoli interni
del proprio vivere quotidiano.
E pure, l'ossessione che abbiamo intravisto in alcune vecchie
nature morte, la drammatica angustia dello studio degli autoritratti
sulla fine del decennio Settanta/inizi Ottanta, sono venute meno:
Pescatori dialoga con gli oggetti con quella diversa serenità,
con la "saggezza" faticosamente conquistata attraverso
il ciclo precedentemente letto. Ed attorno ai suoi oggetti è
ricomparsa l'aria, le finestre si sono aperte, oltre le finestre
ricompare la luce diurna, con i suoi mutevoli umori, il suo modificarsi
incessante e felice: nasce da questa evoluzione il bisogno di
narrare per cicli (settimane, stagioni, ...).
L'artista bresciano non ha certamente perduto l'antico istinto
e l'antico rapporto con la pittura: sembra solo che possa finalmente
riflettere distaccato, lontano dalle contese del mondo. Pescatori
parla ancora delle nostre debolezze, con la bonaria serenità
di chi ormai può vedere le cose dall'alto. Salvo farsi,
di tanto in tanto, riacciuffare dalla situazione, salvo farsi
di nuovo coinvolgere dagli eventi, ed ancora animarsi o abbattersi,
entusiasmarsi o spegnersi, con un ritorno umorale alle più
mutevoli arie della giovinezza. E forse è anche e proprio
per questo che anche la pittura vive una nuova giovinezza e felicità
espressive.
Anche quando il cupo umore lo porta a dipingere i paesaggi neri,
dove il mare in lontananza non è che una striscia di bitume,
anche quando il sole sembra illanguidirsi all'orizzonte, in uno
scenario desolato da "giorno dopo", Pescatori sa rianimare
la pittura. E spesso la sua pagina ritorna ariosa e felice, magari
un fiore smarrito spunta su un ramo rinsecchito, come segno di
quella perenne vitalità della natura in cui l'artista
bresciano profondamente crede.
Così è per la luce: ora fredda e livida, da mattino
in burrasca, ora luminosa e soave, da tepore primaverile, la
luce, diventata una luce vissuta, ha il sapore dell'umore del
pittore e serve a dar vita alle cose. Pescatori si conferma quel
pittore di stati d'animo che abbiamo indicato in apertura: in
questo senso, il discorso del racconto va in parte ridimensionato.
Certamente il pittore continua a parlarci di eventi, soprattutto
continua a riflettere sugli eventi e sulla storia; ma altrettanto
certamente il suo parlare finisce per toccare le corde emotive
di una commossa partecipazione al mondo, ed è questo,
alla fine, ben oltre i motivi iconografici, ciò che resta
a delineare una vicenda artistica, mostrata nella consapevolezza
di una raggiunta maturità.