Chiar.mo Professore,
mi è molto, molto difficile, esprimerle a parole i sentimenti di devozione per la Sua alta dottrina e di riconoscenza per quanto ha fatto e sta facendo per me.
Lei sa quanto mi sia sempre stato complicato e quasi paralizzante esprimere pensieri o fatti di vita attraverso il linguaggio della parola; mi scuserà pertanto della forma e della povera discorsività di quanto vado esprimendoLe.
Il fatto stesso che lei intenda continuare l'analisi senza l'ausilio del divano, ma ricorrendo al linguaggio che mi è più congeniale, la pittura, aumenta ancor più questa mia afasia (quanto invidio chi sa scrivere per ore, senza cancellature e pentimenti !) e nel contempo mi conforta (illusione?) della capacità di essere almeno più comunicativo con il linguaggio visivo.
Cercherò dunque, con calma, come quando ci si stende sul divano, di scriverle delle pitture che in questi due ultimi anni ho eseguito su Suo ordine e conto.
In attesa dell'espletamento delle pratiche doganali, e nell'ansia che lei veda dal vivo i quadri e mi dica qualcosa di definitivo in merito, mi permetto inviarle le immagini fotografiche dei dipinti con qualche nota scritta, che Lei forse riterrà superflua, ma che ritengo utile aggiungere.
In questi due ultimi anni, impegnato in questo "ciclo", sono stato assai bene. Le reticenze, i silenzi, le paure, che lei conosce sono in parte passate: le ho trasmesse ad altri; forse ai personaggi dei miei dipinti?
Che sia stata questa commissione, più che un oggetto di analisi, già una terapia?
Se così fosse dovrebbe propormi altri incarichi, perché solo all'interno del ricercare mi sento libero di operare, di esperimentare, in una parola sono vivo.
Pur sempre, giustamente e cortesemente sollecitato, tendevo, e tendo tuttora, a divagare (perché ancora questi pudori?), a rievocare e rivivere tanti piccoli ed insignificanti episodi del passato, senza mai afferrare il presente...
... ora vorrei entrare nel discorso e parlarle dei quattro lavori.
Un amico, giorni fa, li ha visti; generosamente ha chiamato il ciclo "Eros e Thanatos". Pur grato alla sensibilità del poeta, chiamo la tetralogia con i numeri romani I, II, III, IV e con i sottotitoli: Uomo e donna, Incontro, Famiglia, Requiem.
I telai misurano centimetri centoquaranta di base e duecento di altezza.
Lei mi aveva suggerito superfici più grandi, ma lavorare su pale con misure superiori comportava il cambio del luogo di lavoro, fatto questo che mi avrebbe portato ad un lungo periodo di inattività e di disagio per le mie rigide abitudini (paura del nuovo).
Qui nel mio piccolo studio, invece (sono vicino a mia moglie ed ai miei figli), lavoro bene, c'è buona luce, vedo anche se tira vento, c'è la mia seggiola, ci sono i miei libri, il mio silenzio e tanti, tanti oggetti, anche inutili, ma e me cari.
Se Lei avesse la pazienza di leggermi, potrei elencarle le mie ottomiladuecentoquattordici voci (ieri; oggi sono tre di più) degli oggetti che ondeggiano nel mio antro: cappello di paglia di mio padre, tre taniche di acido nitrico, piante grasse, lucidante bliz inox, barattolo vitamine, serie completa imbuti di plastica, manichino maschile grande al vero spagliato e tarlato, lamette del traforo, tubo di gomma diametro 18 di metri 14, bustina di liquirizia, libri intonsi, conchiglie, righetto doppiodecimetro ottonato, rubrica indirizzi con molti nomi cancellati, brunitoio, elenco libri da acquistare, pila dischi, bucranio, vernice noir ...oggetti che continuamente entrano o sono entrati tra le mie "Vanitas".
Continuo a divagare; perché tanta paura a parlare dei miei lavori e dei miei pensieri a Lei che di me conosce tutto? Cosa sono queste riserve? Insicurezza, eccessivo orgoglio, presunzione, paura di giudizio negativo?
Ho iniziato il lavoro con gradualità, come facevano un tempo in bottega (quanta nostalgia!), preparando i telai, tendendo le tele ad umido, poi curando i fondi con gesso e ammorbidenti secondo l'esperienza della tradizione. I telai, però, seppure in legno stagionato e senza nodi, hanno sofferto delle tensioni della tela e tendono ora un poco a fare vela.
Mentre inchiodavo, lisciavo, scartavetravo, piano piano mi immergevo nei temi. Attraverso schizzi cercavo lo spazio in cui situare i personaggi.
La stanza rinascimentale dava troppo ordine; allora la scelta è caduta su uno spazio, precedente alla prospettiva di Piero, meno scientifica, più inquietante: là si esprimevano certezze, qui, nel mio spazio, non giudizi o verità, ma un dubbio sull'uomo che a fatica conosce se stesso.
Ho dovuto ripensare alle origini della nostra pittura, ho preso a rileggere fotografie di opere del passato, con la curiosità e la gioia di quando ero bambino e sfogliavo i libri d'arte di mio padre: ho amato Prometeo, Ulisse, i Santi ed i Profeti, la mitologia classica, le vie crucis, i libri della Bibbia, Giobbe ..., attraverso le immagini prima ancora che attraverso la parola.
In questo riguardare ho ritrovato emozioni lontane, nostalgie ed anche molta autonomia e libertà.
Tutto questo, a poco a poco, stava diventando solitudine ed impotenza.
Finalmente ho reagito; ho dato inizio al primo quadro: Uomo e donna.
Per il personaggio maschile mi sono aggrappato all'Adamo del Dürer, bello per la sua articolazione e per la positura, scandito nei volumi da una articolatissima e calibrata luce, dal disegno scattante seppur analitico, pieno di attese, di ansie, ma anche di certezze.
Era il volume giusto che poteva entrare tra le mie quinte, sul mio palcoscenico.
Fulcro di tutta la composizione è il gioco delle mani che tentano di comunicare: si cercano e si respingono ad un tempo.
Non voglio descriverLe il quadro: basti la fotografia. Mi preme piuttosto dirLe dei pentimenti e delle cancellature, dei ricordi e delle emozioni ...
Ho tolto un grande nastro rosa che a mò di serpente, acconciava la capigliatura della donna e sinuosamente occupava il quarto superiore sinistro del quadro; il nastro dava al tutto una decoratività eccessiva. che portava il dipinto ad essere un d'après o peggio ancora un reperto anacronistico.
Ho anche tolto all'uomo la mela, che sosteneva nella mano sinistra; era questo frutto uno sferoide che catalizzava e forzava a destra l'occhio disturbando la percezione del muto tentativo di dialogo delle mani collocate al centro della composizione.
Il pigmento pittorico è ricco di continue stesure di mezze tinte ad olio calde e fredde, stese a tocchi fitti di bagnato su bagnato, come si fa con l'affresco.
Ho spalancato l'antone di fondo, non per ricavarne luce, ma per rendere precaria e fluttuante l'orizzontalità della pavimentazione; la luce non doveva venire da fuori, ma emanare dall'interno dei corpi. Corpi sui quali ho inciso segni, quasi rasoiate, per fare emergere dalla solidità dell'anatomia la solitudine, la precarietà.
Il secondo tema (Incontro d'amore), l'ho iniziato quattro mesi dopo. Ho ripensato ai grandi amori della storia e della poesia.
Pensando ad Orfeo, la mia memoria è corsa subito al Parnaso di Raffaello, dove al centro della lunetta è collocato un giovane musicante. Ecco: era il mio personaggio maschile.
La donna doveva essere casta, riservata, ma innamorata; forse la figura che nella storia dell'arte più si presta a dar corpo a questi sentimenti è la vergine della "Source" di Ingres: trovavo così due figure con positure e gesti omogenei, perfette per un contrappunto formale.
Pochi i pentimenti in questo quadro. La quinta di fondo doveva far riflettere più luce, ma poi ho preferito renderla opaca; l'asse dove è seduto l'uomo attraversava tutto il dipinto in orizzontale; interrompendo la verticalità della figura femminile, dava troppa sicurezza all'uomo seduto.
La panca ora è a sbalzo, l'uomo è in equilibrio instabilissimo; al più piccolo spostamento verso la donna l'equilibrio si spezza e l'impalcatura crolla.
Se nel quadro precedente ho evitato luci atmosferiche, in questo ho lasciato calare un azzurrato ed impalpabile pulviscolo di luce, freddo come la luce elettronica.
Con il terzo quadro (Famiglia) ho faticato molto.
Non potevo certo riferirmi all'unicum del tondo Doni. Il mio pensiero oscillava continuamente fra i dannati del Signorelli di Orvieto e le figurazioni dei Suoi contemporanei pittori viennesi: in particolare al grande quadro la Famiglia (1914) di Egon Schiele.
Ho allora cominciato a disegnare figure sedute, accovacciate, stese, accartocciate; volevo fare una composizione con personaggi calati a forza in uno spazio asettico e opaco, gravati di atteggiamenti e pose tipiche delle tragedie, con gesti assoluti e statici, ma anche fragili, provvisori, stereotipi, come quelli delle figurine del carillon.
I tre personaggi sono come isolati in una autonoma luce metallica; sono assolutamente liberi, ma questa libertà li aliena, li porta all'angoscia, alla solitudine: sono ibernati.
L'unico pretesto di collegamento (letterario, non formale) è il tendere ripetitivo e disarmonico del filo rosso collegato al giocattolo in legno laccato.
Il dipinto è volutamente freddo; un tubo catodico fuori quadro non genera ombre, ma non favorisce certo la luce.
Ho iniziato a marzo di quest'anno e finito da poco il quarto quadro (Requiem).
Ho sempre amato i grandi pittori della scuola bresciana, ma le mie predilezioni vanno sempre al Cristo e l'angelo del Moretto.
E' questo sicuramente uno dei capisaldi della nostra cultura. E' un'opera impostata sui grigi, piena di pathos lacerante e di un assoluto silenzio; vi è espresso un dolore laico, senza speranza di resurrezione.
Ho affrontato il quadro ripetendo lo schema morettiano: stessa scala con leggera luce fredda da sinistra. Sotto la predella rossa, schiacciato da 4/5 di quadro, coperto da una sindone: l'uomo.
Anche la donna è coperta dallo stesso panno, emerge solo la testa dilatata dal dolore, come nella tipologia dell'angelo del Moretto.
Il bianco sudario mi ha dato gravi problemi: come risolverlo? Mantegna, Cezanne, cubisti sintetici?
Esistono segni che hanno sempre la stessa genealogia: i ripiegamenti degli strati geologici, le profonde e spesse rughe sul corpo dei vecchi, le fibre vegetali di alberi antichi e forti che sopportano e sfidano il gelo e i venti e l'infuocata calura.
Ecco: questi segni mi pare abbiano in comune i ritmi della fatica del vivere e dello sforzo per continuare a lottare contro cieche violenze.
Allora i ripiegamenti del mio lenzuolo hanno assunto gli andamenti dei lobi cerebrali dell'uomo; più anse e solchi corrispondono a maggior conoscenza, ma anche a più profondo dolore.
Nell'impostare il quadro avevo dipinto la figura femminile con le mani libere; poi per il troppo forte dolore, le mani sono scivolate sotto la sindone interrompendo quindi il muto dialogo fra mani e cervello. La donna ora non opera più, vive nel dolore totale, aspetta la fine.
Questa mia creatura, più simile a noi, non ha la fede di Ulisse sulla zattera che:
..... se ancora
qualcuno degli dei mi schianti
tra i lividi flutti,
ancora nel petto
saldo resisterà il mio cuore,
forte di molti dolori.
(Odissea V 221-223)