Passata
attraverso un'esperienza attenta e puntuale di movimenti e di
influenze determinanti per la cultura figurativa di quest'ultimo
decennio, la personalità di Carlo Pescatori è frutto
di una conquista, di una ricerca paziente e consapevole, è
il risultato di una scelta artistica e morale insieme. Ciò
che ha sempre contraddistinto il suo lavoro nelle diverse fasi
fin qui seguite, è stata una sensibilità aperta
ai problemi e ai drammi del mondo d'oggi. Non arte di evasione
e di fuga dunque, ma arte di impegno e di partecipazione.
Se le radici stilistiche di Pescatori affondano in un filone
di realismo espressionista (Guttuso, Calabria, Vespignani o in
genere la giovane pittura romana) un filone che si fa aguzzo
e tagliente come per il guizzo di una vena alla Sutherland, il
pittore ha saputo segnarlo con un accento suo, ha saputo piegarlo
a una poetica drammatica ed elegiaca che è sua.
Un sottile rovello, un malessere indefinibile, un'ansia nascosta
permea ogni aspetto, sia pure il più insignificante della
nostra vita quotidiana nella rappresentazione di Pescatori. Ogni
creatura, ogni cosa porta su di sé l'ombra incombente
di una condanna. Tutto è contaminato e intaccato; tutto
rinvia per metafora ai flagelli che insanguinano il mondo, e
per mano degli uomini stessi, per cui la vita è insidiata
e avvelenata alle sue stesse sorgenti.
La violenza insinua la sua lama fin dentro gli angoli più
riposti della nostra esistenza, persino nei giochi dei bimbi
o negli strumenti più banali del nostro comfort
borghese. C'è dovunque un segno di perversione e di degenerazione
morbosa. Colori e linee ben assecondano questa visione disincantata
della realtà d'oggi.
Su schermi nitidi e compatti, quasi cartellonistici, ma dalle
tonalità estremamente sofisticate e illividite, come di
belletto o di sangue guasto, le immagini si stagliano con nervosa
energia plastica ed espressiva e con acuti stridori timbrici.
Evocano il dramma duplice e lacerante che mina, sconvolge la
vita di noi tutti, piccole parti di una civiltà prestigiosa.
Da un lato l'urto, il duello mortifero tra la natura e la tecnica,
dall'altro la sopraffazione dell'uomo sull'uomo, la violenza
spietata sui deboli e sugli inermi.
I volti, le carni sono alterati come da una tabe intima, hanno
di volta in volta un che di infetto e di febbrile, oppure di
consunto, di martoriato. Le squadrature nette, elementari degli
ambienti, le sbarre parallele e affilate di balconi o cancellate,
i muri nudi rimandano irresistibilmente all'idea del carcere,
del campo di concentramento o della camera di tortura.
Su quei muri, su quei fondi l'apparizione di un banale elemento
metallico, una tubatura, un rubinetto, una bacchetta di tenda
evoca la presenza di ordigni misteriosi e maligni, di armi puntate
entro il tessuto della vita quotidiana. Mentre d'altra parte
ogni elemento di natura si travolge subito in mostro: un ramo
nudo, una radice sono spire viperine, sono artigli adunchi; un
cane è una belva infida; un ciuffo di foglie è
un mazzo di lame, un groviglio di lingue serpentine.
Un filo di sinuosità liberty coopera a introdurre
dovunque un che di crudele e di insidioso. Le linee tendono ad
arcuarsi, ad attorcersi e ad esasperarsi in guizzi di serpi invelenite
o viceversa in contrazioni come di spasimo.
Sdegno e amarezza avvelenano, incattiviscono i profili della
realtà e il segno del pittore si accanisce, si compiace
in grafismi elaborati e la sua tavolozza in cromatismi arditi
e preziosi.