1) Narrano gli aneddoti, veri e falsi ad un tempo, testimoni di eventi reali, tramandati con la forza e l'invenzione del mito,
che alcuni uccelli, richiamati dalla "verità" della rappresentazione, si siano fermati, tentando di beccare
la frutta matura dipinta da Zeusi; altri aneddoti (1) riferiti allo stesso artista, di cui purtroppo non possediamo che la memoria
scritta, raccontano che alcuni amici cercarono inutilmente di allontanare, con il gesto lieve della mano, gli insetti (dipinti),
posati su altra frutta.
Sono celebri episodi, riportati dai manuali; e, nella loro invenzione e leggenda, documentano il bisogno di mimesi che ha attraversato la storia dell'arte: episodi che non vivono solo sul mitico Zeusi, ma interessano mille altri interpreti della straordinaria storia dell'immagine.
Sotto questa luce, l'evoluzione degli stili potrebbe essere interpretata come la modificazione e la ricerca costanti, in virtù di una inespressa "scommessa", quella palesata con la rappresentazione che, nelle due dimensioni dell'immagine su parete o tavola o tela, cerca di tradurre e dar conto delle tre dimensioni della vita reale. Un'indagine accurata sulla letteratura è stata compiuta oltre 50 anni fa da Auerbach (2); una indagine analoga, nell'universo dell'immagine, non è mai stata compiuta, almeno in questa direzione (3); e tuttavia darebbe senz'altro risultati sorprendenti, se è vero che l'immagine mimetica, che appare come aspetto determinante nella storia dell'arte fino a poco più di un secolo fa, cerca di catturare il visibile, e se è altrettanto vero che solo un movimento, ideologicizzato e alto, a metà del secolo scorso, all'interno dei numerosi realismi riscontrabili nella storia della pittura, si è potuto attribuire il titolo di "realismo".
Il problema della mimesi, del realismo - che si continua in questo testo ad intendere come termine generico, non come indicatore di un movimento specifico - si è venuto accentuando, nel nostro secolo, per la presenza di una nuova e differente concezione dell'arte e della storia dell'arte: è cessata l'indagine sulla realtà esterna, quella che Riegl traduceva attentamente con il termine "oggetto", e si è accentuata l'indagine sulla realtà interiore, quella che lo stesso grande critico-storico d'arte indicava come "soggetto". Il passaggio, davvero epocale, alla base della concezione stessa della "modernità", come scavo, indagine profonda, ferita, passaggio al mondo sotterraneo, ha senz'altro aperto la strada a manifestazioni espressive diverse da quelle tradizionali, rendendo comprensibile anche la non iconicità dell'immagine: di certo, la rottura dello schema rappresentativo è stata netta e inequivocabile (forse non immediatamente avvertita che dai pochi): ma si può sostenere che sia stata anche irreversibile? Sarebbe miope interpretare questo passaggio come una definitiva perdita della rappresentazione, e in molti casi come definitive perdite della pittura (nelle ipotesi post-dadaiste); il mondo "altro" non viene a noi solo da un universo di immagini aniconiche o da un mondo di oggetti massmediali; in modo analogo, le immagini verisimili che pure compaiono nel sogno, non servono a documentare una realtà esterna, ma quella interiore, comunque altra. In questa luce, si può comprendere come la barca che si muove tagliando l'onda verso l'Isola dei morti non documenti un viaggio più o meno simbolico, più o meno allegorico (e tanto meno reale), ma definisca contemporaneamente un ordine altro nella rappresentazione; se anche tutti i materiali iconici dell'immagine appartengono al verisimile, il contenuto espressivo è di certo lontano da ogni copia dal vero.
Ogni "ritorno al realismo", in età moderna, variamente interpretato, come ritorno all'ordine (con suggestioni ideologico-politiche) o alla misura (e perché non intendere la sintassi realista come la necessità di dar ordine al reale, per cui si devono recuperare non solo il linguaggio della tradizione, ma anche alcuni termini specifici della storia pittorica, quale quello di genere?), è stato interpretato come un arretramento, nei confronti di una storia vissuta e letta come un progresso inarrestabile: ora, l'essenza della modernità sta nella profondità dell'indagine, nell'apertura verso un mondo altro, verso un universo intravisto tra le pieghe nuove della materia o del segno: non necessariamente nell'abbandono della mimesi. Se la mimesi serve a documentare l'altrove - si pensi alla indagine della pittura surreale alla Magritte, così vera e così altra ad un tempo -, anche la mimesi può trovar posto nei territori della modernità: non negandola, ma arricchendola di diversi contenuti narrativi.
Letti sotto questa luce, almeno nelle esperienze più mature, consapevoli delle avanguardie, i realismi tra le due guerre non solo si ricollegano alla tradizione, rimettono in gioco il mestiere e l'artigianalità del fare; tali tendenze vanno in sintonia con le concezioni di un Gropius, che afferma che l'opera d'arte, "forma del nostro essere nella realtà", non si pone come elemento altro, ma, in quanto "espressione di un sentimento della realtà"," si acquista soltanto facendo" (4). Di fatto, quei realismi negano non tanto le avanguardie, ma l'idea sottesa all'ideologia della modernità, quella per cui l'unica storia dell'arte è quella delle avanguardie: come annota Jean Clair, in un celebre saggio, la presenza di realismi ( di indubitabile alta qualità poetica ed espressiva) tra le due guerre va contro un'ideologia diffusa "selon laquelle non soulement l'avant-garde a une histoire, mais l'avant-garde est l'histoire" (5).
2) L'adesione al principio della mimesi non è interpretabile come una scelta che si proponga la negazione delle avanguardie
(né, tanto meno, la negazione di altre ideologie o poteri politici, come è stato letto in una recente stagione); la verità referenziale, come schema iconografico, la verità rappresentativa di uomini, oggetti e ambienti possono essere interpretate come una scelta linguistica, che non modifica i termini delle poetiche contemporanee; le immagini referenziali sono come i materiali che danno vita al sogno, per quanto questi ultimi siano in bianco e nero: servono per narrare storie altre, aiutano a scardinare ordini, ad aprire varchi nella psiche, servono per documentare inquietudini e stati d'animo, non meno di quanto accade per le opere non iconografiche, non facenti capo ad un prelievo dall'epidermide del reale; allo stesso modo degli autori di fine secolo scorso/inizi del secolo nostro, come afferma Rilke, gli artisti che si aprono alla riflessione sul mondo interiore, sull'universo individuale della propria inquietudine, appaiono come "le api dell'invisibile" (6), i costruttori di un edificio nuovo, che nessuno poteva prevedere e misurare al suo apparire. Essi appartengono, dunque, a quell'universo poetico che chiamiamo l'arte contemporanea; solo che, proprio perché partono da evidenze di realtà, esperite con le forme e con i modi della verisimiglianza, si basano su una raffigurazione iconica; forse sono in maggior sintonia con i contesti espressivi della tradizione, da cui si allontanano tuttavia con la stessa forza delle immagini aniconiche. Le immagini mimetiche, verisimili, si sono maggiormente prestate ad un doppio equivoco: da una parte sono entrate nell'universo dell'arte contemporanea anche le immagini che appaiono appiattite sulla realtà, in una certa misura
come illustrazioni, o come cronaca "fotografica" o da reportagista del mondo esterno, in presa diretta; dall'altra è parsa più facile - e in molti casi ciò è stato favorito dall'utilizzazione di determinati materiali iconografici - una lettura/interpretazione della pittura di realtà all'interno delle coordinate narrative, più agili per una esposizione critica di più ampia comprensibilità. Sono cioè esistite, sia forzature dal punto di vista espressivo, per cui molti autori sono caduti nella tentazione di narrare e illustrare gli eventi quotidiani, dimenticando che in altra direzione vive il respiro della contemporaneità; sull'altro versante, sono esistite forzature critiche, per cui autori che utilizzano immagini del reale per documentare metaforicamente ben differenti manifestazioni del pensiero, sono stati racchiusi in contesti, anche fuorvianti, di una narrazione quotidiana, di solito a connotazione sociale (
).
In una sorta di alternanza, tra fissità dell'immagine che denuncia la sua derivazione fotografica, e simbolo, che dall'immagine mimetica trae pur sempre la sua forza, vale la pena di collocare a questo punto del nostro itinerario le immagini di Carlo Pescatori (Brescia, 1932).
La "natura in posa" di Pescatori ha una derivazione colta, che rinvia a Cotan e alla grande cultura del barocco, riletto in chiave espressionista: per queste ragioni, le sue nature morte appaiono ad un tempo ricche di esuberanza cromatica e cariche di una intristita macerazione, tra vitalismo esibito e interna consunzione, che ne dimensiona l'aspetto freddo: facile connotare come "vanitas" la sua natura morta; facile cioè rinvenire il simbolo di una bellezza che si consuma, non più soltanto per effetto delle coordinate di una riflessione filosofica che affonda le sue radici nell'Ecclesiaste, ma anche per ragioni più quotidiane, rese evidenti dai continui rinvii iconografici, dall'orizzonte oltre la finestra, ai dati transeunti degli oggetti, che dialogano con il soggetto principale.
La via simbolica di Pescatori viene a documentare una impossibile felicità nei confronti delle cose, sempre appetite per la loro indubitabile forza d'attrazione, ma sempre allontanate da una sorta di ancestrale pudore, che ci fa temere la felicità nel momento in cui compare, per paura della sua scomparsa. L'unica felicità possibile sembra essere quella della pittura, che cita se stessa, si basa sulle proprie coordinate espressive e dialoga con un bimillenario mondo di immagini.
(...) Non è agevole dimensionare un percorso nella realtà, tentando, ad un tempo, di ottenere verità altre e diverse, e una gamma fertile e ampia di modalità espressive: allo stesso tempo, si è voluto, attraverso una diversa anagrafe degli artisti, documentare la persistenza di questa linea di ricerca: è il persistere del desiderio di andare oltre il visibile, pur mantenendo gli usi linguistici al visibile collegati.
Note:
1) Tali aneddoti si ritrovano un pò ovunque, nella manualistica e nelle trattazioni
erudite; riemergono spesso, ogniqualvolta si affronti il tema di una rappresenta
zione verisimile: si veda recentemente , in A.E. Perez Sànchez, La pittura
spagnola del secolo d'oro; in AA.VV., Luci del secolo d'oro spagnolo, Parigi,
Unione Latina, 1998, pag. 50.
2) Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino,
Einaudi, 1956 (in originale: Berna, A. Francke, 1949).
3)Le indagini iconografiche hanno avuto spesso per oggetto l'analisi e la comparazione dei termini espressivi, dei significati simbolici, e così via; è mancata, a tutt'oggi, un'indagine sui termini stilistici della rappresentazione verisimile.
4) G.C. Argan, Walter Gropius e la Bauhaus, Torino, Einaudi, 1974 (1a edizione:
1951), pp. 32-33.
5) Jean Clair, Donnèes d'un problème; in P. Hulten (a cura di), Les realismes,
Paris, Centre Pompidou, 1980, p. 9.
6) R.M. Rilke, Lettera a Witold Von Hulevicz; in Del poeta, Torino, Einaudi, 1955,
p. 99. Nella stessa raccolta di brevi testi, si trova una straordinaria "anticipa-
zione" delle coordinate dell'arte contemporanea: Del giovane poeta, p. 86:" Io non so davvero come si possa disconoscere lo straordinario e il meraviglioso di un mondo, nel quale lo sviluppo del previsto ancora non ha intaccato la massa
di quello che sfugge ad ogni capacità di umana intuizione".