Questa non vuoi essere una ambiziosa
vetrina di pure qualità estetiche, vuol offrire
invece un'esemplificazione delle vie e delle forme diverse per
le quali la coscienza degli uomini d'oggi raggiunge un rapporto
vivo, ricco, autentico con la realtà del mondo
nostro, del mondo di tutti.
Non vuol essere dunque una mostra di nomi consacrati e neppure
una rassegna di giovani talenti nuovi; ma una mostra di significati,
di giudizi, di confronti esemplari con i quali il pubblico possa
aprire un ampio dibattito critico. Oggi più che mai la
voce della storia parla anche attraverso la lettura e l'interpretazione
della figurazione artistica.
Ma alle forze che regolano, al fondo, la vita dei nostri giorni,
i significati, non piacciono; non piace l'arte che trasmette
significati. Piacciono le emozioni pure, le sensibilità,
gli umori: i segni; o, a rovescio, piacciono i gesti,
le dichiarazioni di rifiuto, le manifestazioni dissacranti, autopunitive,
autodenigratorie dell'arte. Il mercato premia infatti i segni,
i gesti, i ludi, con una generosità che raramente
concede ai significati.
All'origine della predilezione per i segni, per le pure
emozioni, sta il bisogno di nascondere la realtà, il suo
dramma, i suoi orrori sotto l'incantevole manto della bellezza
e dell'insignificanza, del nonsenso, o dell'eccentricità
iconoclasta. All'origine della predilezione per i gesti e per
i "comportamenti" sta l'esigenza, talora autentica,
di liberare l'orrore delle cose dalla menzogna estetica,
dal lusso della bellezza che avvolge la realtà nell'illusione
e nell'inganno. Il drammatico affronto di orrore e bellezza,
(per citare Walter Benjamin) caratterizza in forma tipica la
situazione dell'arte d'oggi.
Ma per liberare la realtà dalla menzogna occorre dire
cose vere; non serve dichiarare false le cose false, non
serve smascherarle con gesti o rifiuti. Non serve rifiutare
la bellezza che inganna quando il mondo ne riproduce, per ogni
verso, la potenza illusoria, consolante e mistificatrice. In
questo nostro mondo, alla bellezza che inganna, non resta
che opporre l'arte che disinganna: alla bellezza dell'esteta
la bellezza dell'artista.
Cent'anni fa - nel '59 - si poteva dire che "su due argomenti
i filosofi concordano: che non esiste bellezza senza una forma
bella e che questa forma bella, deve far scorgere le idee, avere
un contenuto razionale, costituire veicolo di concetti e soddisfare
tutte le facoltà della mente umana" (K. Marx: voce
"estetica" - inedita - per la "New American Enciclopedia"
da "Arte e società", ott. 1973 pag. 46). Oggi
i "filosofi" non sono più d'accordo neppure
su questi argomenti; ma ciò non toglie che essi siano
più veri che mai.
Perciò questa vuoi essere una mostra di significati,
di "prese di coscienza"; di opere che fanno i conti
con la realtà e le tendono tutti gli agguati possibili
per coglierla nella sua verità nascosta, nel fondo di
orrore, di infamia, di rapina, di repressione dal quale deve
essere liberata.
Perciò è una mostra di artisti - (pur nella diversità
delle correnti e dei mezzi tecnici) - della realtà;
cioè d'immagine, di racconto, di figurazione. Perché
solo nella organica compiutezza della figura, viva e oggettiva,
la realtà prende significato e valore per la coscienza
dell'uomo - e non per l'una o l'altra delle sue sensibilità
separate ed edonistiche.
La civiltà della grande città,
della grande industria non è riuscita a costruire un ambiente
umano; la condizione umana nella civiltà d'oggi è
condizione lacerata, tragica; l'uomo soffre e accusa l'ostilità
di un mondo che cresce e si sviluppa attraverso contraddizioni
sempre più profonde, insanabili.
Questo è il significato sostanzialmente comune espresso
dall'operare artistico da più d'un secolo. Questa è
la convinzione profonda espressa in quei significati: convinzione
così pressante da costringere gli artisti del nostro secolo
a porre continuamente sotto processo le stesse forme, gli stili
del loro operare: per impedire che da strumenti nei quali si
esprime la tragedia si trasformino in abbellimenti che illusoriamente,
ipocritamente la cancellano. Ciò spiega perché,
dagli anni d'apertura del secolo, la forma artistica sia stata
sottoposta a continue rotture, processi, rifiuti.
Sono dieci anni ormai, da quando un gran
vento, non certo soltanto poetico ha investito e spazzato le
ultime nebbie dell'informale. Il mondo che l'artista - esteta
pretendeva di esorcizzare nascondendone il volto vero nella "menzogna"
e nel vuoto delle astrazioni o delle "paste cromatiche",
liriche o geometriche che fossero, si rivelò e si impose
d'un tratto nella sua verità: e fu, per questo - per la
sua verità - momento felice e solenne. Ma era per lo più
(al di là dei trionfalismi fittizi), verità d'orrore
e d'angoscia quella che si svelava; e perciò fu, quello,
anche momento drammatico; carico di giustizia e di nuova, giovane,
ardita nobiltà; momento che ha segnato d'un marchio indelebile,
irreversibile il cadere degli anni sessanta (...).