Carlo Pescatori appartiene alla terza
generazione artistica del '900. Dagli anni dell'immediato dopoguerra
ad oggi, in Italia, si è sviluppata con sicura energia
una tendenza figurativa che fonda le qualità del proprio
linguaggio sulla presenza oggettiva del mondo. È una tendenza
che è andata precisando la sua fisionomia recuperando
sia il momento realista dell'arte italiana, che ha in Guttuso
il suo punto di massima forza, sia le suggestioni della metafisica
dechirichiana, rovesciandole tuttavia ad un significato diverso.
È a questa tendenza, appunto, che lo stesso Pescatori
si riallaccia con una particolare lucidità d'intenti.
Il ciclo di opere ch'egli ha dipinto nel corso del '71 potrebbe
essere raccolto sotto un titolo unico: "Le spiagge".
Questo infatti è il soggetto di ogni quadro. Il tema vero
del ciclo è però ben altro: è il tema della
solitudine, il tema del rapporto impossibile con una realtà
resa enigmatica all'uomo dall'usura cui l'uomo è sottoposto
da una società artificiale, denaturalizzata. L'ottica
di quest'uomo diventa così allucinante, netta, crudele.
Lo spettacolo del mondo si cristallizza, si tende in una staticità
assoluta, perché l'occhio dell'uomo ha perduto la sua
umanizzante virtù di conoscenza e di rapporto, ha cessato
di essere organo emozionato ed emozionante, per ridursi ad impassibile
specchio di una natura muta, sigillata, impenetrabile.
La visione di Pescatori non è dunque metafisica, non definisce
cioè i termini di un mistero che sta dietro il confine
delle cose, bensì una situazione che è al di qua,
che fa parte della nostra sorte, della nostra storia, in cui
la natura stessa è compromessa, minacciata a sua volta
nelle sue medesime, vitali proprietà.
Il carattere di questa pittura nasce da tali ragioni, che non
sono dunque formali, ma di fondo: ragioni che danno alle immagini
di cui è composta quella singolarità di modi che
le distingue e qualifica stilisticamente, sottraendole al puro
esercizio plastico per inserirle in un discorso non elusivo sul
tempo presente e sui motivi che ne dominano la vicenda.
E' quindi da questo punto di vista che vanno guardate le tele
di Pescatori, queste sue spiagge deserte, da cui sembra che per
un improvviso terrore sia fuggito ogni essere vivente; queste
sue spiagge ritagliate in una luce ferma ed eguale, senza palpiti,
senza fremiti, dove mare e cielo, sabbia e ciottoli, appaiono
lisci, levigati, intatti, senza che la presenza attiva dell'uomo
si avverta in qualche pur minimo dettaglio. C'è mai stato
qualcuno che ha osato abbandonarsi su quella sedia a sdraio?
Ci sarà mai qualcuno che vi si andrà a distendersi?
E' una sorta di mondo fra parentesi quello che Pescatori dipinge,
un mondo, da cui la vita si è ritirata, in cui la vita
non riesce più a penetrare.
Di questo "momento" arido, inerte, collocato nell'assenza,
i pesci morti, appesi per le branchie o per le bocche, nell'immobilità
atemporale del paesaggio marino, sono l'emblema più evidente.
Pescatori li dipinge con esecuzione acuta, circostanziata, indugiante,
perché intuisce in essi una chiave essenziale della propria
poetica, un dato emergente della sua ispirazione. E di fatto
è così. Lo spento colore di questi pesci Insieme
con la dura, decisa e incisa, enunciazione che li definisce plasticamente,
costituiscono l'unico segno ancorché negativo, di un "prima"
e di un "dopo". Nel quadro stanno come un interrogativo
inquietante, come una domanda che Pescatori pone a se stesso
e a noi: se questo è il passato, ci sarà un futuro?
Immagini di riflessione, di contemplazione, di contestazione:
è in tale senso che vanno considerate queste immagini
sul destino ecologico della natura e sul nostro stesso destino
antropologico. Aiutarci a capire ciò è l'intento
di Pescatori. E tale intento egli lo affida al potere di persuasione,
al fascino pungente, alla stupefatta intensità di queste
spiagge: le ultime spiagge di un mondo verso la fine o le prime
spiagge di un mondo che può rinascere dalla sua implacabile
solitudine se l'uomo finalmente ne prenderà coscienza.